Di fronte, il verde del mare sfumava, all’orizzonte, in trasparenze arcobaleno e si incontrava col cielo che, avvicinandosi alla notte, si tingeva di indaco profondo e cupo.
Lei non apprezzava quell’incanto. Non poteva. Vedeva solo quel buco nero dove stava sprofondando senza avere la forza di risalirlo.
Sedeva su uno scoglio freddo e si abbracciava in cerca di un calore che non voleva da nessuno.
Si stringeva il petto, dal profondo della sua gola era salito un urlo che solo le onde e i pesci potevano udire, ma non comprendere.
Un ululato di rabbia e di dolore che percepiva netto nel punto in cui le sue braccia avevano formato uno scudo, inutile.
Un dolore che aveva un nome, ossessione o meglio remissione e un colore, il viola dell’ennesimo livido che lui le aveva procurato, scusandosi mille volte, e poi, con voce dolce come miele regalandole un anello con una splendida pietra incastonata, un’ametista (ironico abbinamento), che ora lei stringeva con la forza e la disperazione con la quale avrebbe tanto voluto stringere quel collo che aveva baciato con passione all’inizio, prima di scoprire che apparteneva a un mostro, dal quale per altro non aveva la forza di liberarsi, chissà, forse sperando in una trasformazione miracolosa dell’ultimo minuto.
Ma di minuti ne erano passati un’infinità e la situazione continuava inesorabile a peggiorare.
Poi la decisione.
Lui stava per arrivare. Lei sentiva quella sensazione di ansia, mista a paura e a qualcos’altro che non voleva analizzare.
Quelle mani forti sulle sue spalle magre avevano il potere di farla trasalire ogni volta.
“Ciao amore, eccomi. Non hai indossato il mio anello. Non ti è piaciuto?”
Lei aveva abbandonato la sua posizione quasi fetale, si era alzata e girata verso quell’uomo che la ossessionava e aveva risposto con voce dolce:
“Certo è splendido, vedi lo tengo qui, tra le mani”, e, mentre fissava quegli occhi incredibilmente azzurri, aveva fatto in modo di fargli volgere le spalle al precipizio a strapiombo su acque verdi e turbolente.
Sapeva che lui non amava vederla condurre il gioco, preferiva essere lui a fare avances, così gli si era avvicinata con movenze sinuose e sguardi provocanti che non lasciavano nulla all’immaginazione., era pur sempre una donna e anzi una donna splendida.
Aveva letto, a quel punto, stupore in quell’azzurro, stupore e fastidio, che avevano stravolto il suo sguardo dandogli quell’espressione truce che lei conosceva purtroppo molto bene.
Non aveva smesso però il suo pericoloso gioco di seduzione e aveva allungato una mano per una carezza sensuale che lo aveva fatto indietreggiare.
Doveva abbreviare i tempi, non poteva lasciare spazio a reazioni che avrebbero vanificato i suoi sforzi, così gli si era avvicinata, come lo volesse abbracciare e baciare appassionatamente.
Ed era successo.
“Che fai?” le aveva chiesto, indietreggiando ancora, quasi a voler scansare quel contatto fisico che non aveva richiesto.
Ma lei aveva continuato, come se non lo avesse udito, e questa volta si sentiva tranquilla perché aveva la certezza che non vi sarebbero più state reazioni violente da parte di quell’uomo diabolico.
Non aveva smesso di avanzare e lui di indietreggiare fino all’inizio di quel volo verso la fine sua e l’inizio per lei, che lo osservava precipitare assieme a quella pietra viola come il suo dolore.
“Serena, cosa ti prende? Non sapevo più dove cercarti. Ehi, mi senti?”
Lei si era voltata, lentamente, quasi non credesse ai suoi occhi e alle sue orecchie. Qualcosa non andava. Era ancora rannicchiata lì, sugli scogli e il cielo ora era cupo. Davanti a lei c’erano quegli occhi azzurri che la fissavano.
“Serena, alzati e andiamo a casa” .
“Non ha senso che io mi chiami Serena. Perché non lo sono”.
Gli aveva risposto così veramente o si era sognato anche quello? Non avrebbe saputo dirlo.
Si era alzata e lo aveva seguito docile, come sempre.
Aveva aperto la mano e l’ametista era scivolata sull’erba in silenzio come quella rabbia che le dormiva dentro.