Nessuno di noi riferì ciò che avevamo visto e sentito – oppure avevamo solo creduto di vedere e sentire e, in quel dubbio, stava racchiusa buona parte del nostro processo di crescita.
Io, poi, non avrei parlato mai più di Irving Crane a mia madre – come potevo sapere qualcosa di Irving se non passando davanti a casa sua per andare a nuotare nel Kenduskeag? – se non fosse stato per Connie Chambers e Tony Blaine.
Tony aveva quattordici anni ma, essendo stato bocciato due volte, frequentava ancora le scuole medie. Probabilmente le avrebbe frequentate anche l’anno successivo dato che passava tutti i pomeriggi con Georgina Shuster sul sedile posteriore della Pontiac abbandonata nel cortile di Irving.
Tony era un brutto soggetto e qualunque ragazza si lasciasse palpeggiare da lui era una poco di buono perché, come diceva mia madre, Dio li fa e poi li accoppia, quindi la faccenda non m’interessava.
Cambiai idea il giorno che lo vidi mano nella mano con Connie Chambers.
Se ne stavano sulla panchina del parco (del parco pubblico, mio Dio, come se la faccenda avesse ricevuto il tacito benestare della comunità) e, in un istante, ebbi la dolorosa epifania del fatto che io volevo dovevo essere al posto di Tony Blaine.
Sì, io, Lew Roberts, figlio di Serena Willoughby e Raymond T. Roberts, dovevo essere il ragazzo di Connie, io, non Tony, che sbaciucchiava ragazze in una discarica.
Inforcai la bicicletta e schizzai via, percorrendo tutta King Street e poi oltre, tra i campi deserti nella calura estiva, e poi ancora avanti, sotto la volta fitta e selvaggia delle prime propaggini del bosco.
Pensavo che avrei corso per sempre (come, molti anni più tardi, avrebbe fatto Tom Hanks in quel film), ma i miei polmoni non erano dello stesso parere e mi costrinsero a fermarmi davanti alla casa di Irving.
Mi arrestai ansante, lasciando che lungo la faccia mi scorressero torrenti di liquido bruciante e salato, senza preoccuparmi se erano lacrime o sudore.
Nella mia testa un solo pensiero continuava a girare come un criceto impazzito dentro a una ruota: io, io dovevo essere il ragazzo di Connie Chambers. Io, a qualunque costo.
I fiori oscillavano al ritmo di una brezza leggera, come danzando.
Ebbi la visione di Tony e Connie (Connie, non Georgina) che, dopo essersi fumata l’erba nascosta nel frigo, se la spassavano sul sedile posteriore della Pontiac.
I girabuio parvero chinarsi su di me, frusciando. Avevano una storia da raccontare.
E io ascoltai.

 

«Ti avevo detto di stare lontano da Irving Crane».
«Sì, ma’».
Mia madre fissava il tavolo della cucina, una tazza di caffè nero in una mano e una sigaretta nell’altra.
Il suo sguardo era duro, rigido, pensoso. Dietro i suoi occhi castani (così diversi dai miei e anche da quelli di mio padre, per quanto mi era dato sapere) s’indovinavano pensieri guizzanti e letali come i lucci nelle anse del Kenduskeag.
Mi vennero in mente frammenti irosi di conversazione (Mi dia un po’ di respiro, signora Willoughby, non proceda col pignoramento).
«Va’ in camera tua e restaci per tutta la settimana».
«Sì, ma’».
Mentre salivo le scale mi voltai più volte a guardarla, ma lei non si mosse mai.
Mia madre avrebbe fatto qualunque cosa per il suo unico figlio, nato quando ormai tutti i medici l’avevano definita sterile, ma forse c’erano alcune cose che era meglio non facesse, forse…
(Non è possibile, spiacente).

Il Giudice fu molto duro con Tony Blaine.
Laggiù, all’ovest, potevano prendere certe faccende alla leggera, ma quassù, a Lonefrost, non si scherzava. Comincia a tollerare la marijuana e, in men che non si dica, ti troverai branchi di hippy a bivaccare nei boschi.
La difesa obiettò che chiunque avrebbe potuto mettere un po’ d’erba in quello schifo di discarica e l’accusa suggerì di sottoporre l’intera dannata casa di Irving a un’accurata perquisizione.
Non venne fuori nulla finché Nixon, il bracco dello sceriffo, non si mise a ringhiare e scavare accanto al cespuglio di girasoli.
Rimasero tutti sorpresi quando saltarono fuori le ossa di Barbara Crane con i segni di un colpo d’accetta in piena fronte.
Più sotto c’era il cadavere di Clay Kaminski, decoratore d’interni e questa fu un’altra sorpresa.
Io però non mi stupii per niente.
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