L'orologio ticchettava solo per ricordarmi la sua esistenza. Avvolto in un velo oscuro di silenzio, potevo sentire il tempo congelarsi intorno a me. Le lenzuola, come fasci di rampicanti, risalivano nodose le mie gambe ghermendomi senza scaldarmi, mentre la testa, pesante, sprofondava nell'inconsistenza di un cuscino troppo soffice. Con una lancia piantata nel fianco, mi contorcevo e rigiravo nel letto, orfano della mia galera come del mio posto al sole.
Solo, nello spazio vuoto di una libertà mai così priva di senso.
Stretto dalle caviglie al cuore nel gelido abbraccio dell'apatia, sentii d'un tratto un brivido percorrermi le spalle ed un tremore risalirmi la schiena.
Il cielo da un lato, l'abisso dall'altro, mi volsi al primo e vi scorsi un sorriso, il suo, di dolci labbra del colore della porpora a sorreggere due immensi occhi di prato e di mare. La paglia nei capelli, camminava leggiadra nella lieve consistenza di chi vive in punta di piedi, danzando sublime su un sottile filo d'argento.
Fu l'abisso poi a volgersi su di me, a strapparmi da quel mio angolo di cielo per portarmi giù con sé. Chiusi gli occhi per non vedere il filo spezzarsi e la ballerina cadere, ma non ebbi modo di chiudere il cuore, che si riempì del suo urlo nero.
Il panorama si tinse dei colori del buio ed io mi ritrovai a galleggiare nel più profondo degli oceani, che il suo viso era perso nella nebbia, i suoi capelli spazzati dal vento e le sue labbra profughe all'orizzonte.
Riaprii gli occhi e incrociai lo sguardo del dolore. Triste, mi osservava, con le sopracciglia sollevate, piegate appena a compassione. Per un attimo mi persi nel grigio delle sue iridi, quando le sue fredde dita presero a scivolarmi lungo i fianchi. Col filo di un'unghia mi carezzò sensuale dalla base della schiena fino al collo e tra i capelli, finché, ammansito, non fui tutto suo.
Scivolai tra i suoi seni che il senso mi era estraneo e ci feci l'amore come a congedarmi dal mondo e dalla ragione.
Passò un minuto, forse un'ora, ed il ticchettio dell'orologio si ritrovò a discutere sopraffatto col canto degli uccellini. Dei tenui raggi di luce che fendevano il nero della notte non restava che una cinerea foschia. Un'alba grigia aveva rapito i contrasti di colore lasciando che le forme della città si appiattissero in un orizzonte del tutto indifferente.
Il sottile spettro del dolore giaceva ancora al mio fianco. La mia vista conobbe allora il corpo a cui le mie mani già davano del tu, e fu sorpresa di vedere ciò che le mie dita non ebbero minimamente a sospettare. Un fragile corpo di donna, rinsecchito e ossuto, stava pietoso steso sopra le lenzuola, così inerte da non riuscire neanche a tremare per il freddo. Ebbi schifo di me stesso prima che di lei, così mi vestii e lasciai l'appartamento.
Un filo d'argento, spezzato e penzolante dai rami di un albero, mi preannunciò un incontro. Mi apparve la ballerina. Non sulle punte ma sulla pianta dei piedi camminava grigia e sgraziata innanzi a me, avvolta nei variopinti abiti di un pagliaccio. Si arrestò alla fermata del bus, lo stesso che dovevo prendere io. Priva del suo sorriso come del mare negli occhi, si appoggiò ad un lampione e finalmente mi vide. Impietoso, il peso dell'assenza, cadde a congelare quell'istante. Non uno dei secondi che passammo ad attendere l'autobus ebbe la grazia di durare meno di un'eternità, e mille volte tagliai lo spazio con lo sguardo sperando di incrociare il suo, e mille linee disegnai nel cielo sperando che tutte insieme tratteggiassero il quadro dei miei sogni. Ma nessun gancio unì i nostri sguardi, né una linea sopravvisse alla dimenticanza, e così, come una voce in un coro, quel momento si confuse nel traffico, e non fu che uno tra infiniti, in nulla parte speciale.
Seduto sull'autobus, a pochi sedili da lei, chiusi gli occhi e mi isolai nella fantasia, laddove l'assenza non poteva penetrare. E lì, soltanto lì, capii che avrei sempre ritrovato la ballerina, sublime nella sua danza, viva nei suoi colori, piccola nella sua immensità. E lì, soltanto lì, decisi che mi sarei rifugiato ogniqualvolta lei mi fosse mancata, affinché l'assenza non potesse guastare la magnifica necessità dietro un incontro che, nella realtà dello spazio e del tempo fisici, non sarebbe mai più potuto avvenire.