Stavamo in quattro in un bilocale, con un cucinino separato dalla "sala", la camera da letto dei miei genitori e un bagno non eccessivamente piccolo.

Nella "sala" c'era anche una poltrona-letto, dove dormiva mio fratello. C'erano un tinello che conteneva il prezioso servizio "buono", quello che si tirava fuori solo per Natale, un tavolo rotondo, un divano e un mobile alto e stretto che era l'unica nostra libreria, con una ribalta dove tentavo di studiare, dove si consumava parte delle mie umiliazioni, davanti a un libro di matematica.

Il resto delle umiliazioni si consumava in tutto il resto della casa.

Mamma non mi rivolgeva la parola per ore, a volte anche per giorni se avevo combinato qualcosa.

 

Vediamo... ho tre anni? Quattro? Seduta sul pavimento del bagno, giocavo con il fustino di detersivo in polvere per lavatrice. Toglievo e rimettevo, toglievo e rimettevo il detersivo dentro al fustino... mamma è arrivata, ha urlato, mi ha strappato il bicchierino dalle mani e poi non ricordo più niente.

E' così che faceva, lei. Urlava, mi toglieva le cose dalle mani, mi metteva da qualche parte in casa e poi non mi parlava più, non mi guardava neppure finché non cominciavo ad andarle dietro cercando il suo sguardo. La seguivo e tentavo di strapparle un sorriso, poi cominciavo a piangere, poi chiedevo scusa. Scusa, mamma, mamma, scusa, mamma scusa... mamma... non ricordo quante volte dovessi chiedere scusa prima di essere di nuovo "vista".

 

Mio fratello è più grande di me, è molto più grande di me, comanda lui. Se lui si lamenta o si arrabbia, mamma scatta come un soldatino e lo accontenta. Prima di riempire il piatto del papà. Comanda sempre lui e mi fa i dispetti e mi fa arrabbiare e poi piango. Piango perché nessuno mi ascolta, nessuno gli dice di smetterla, eppure lo vedono che mi tratta male.

Anche papà si lamenta per questo, perché per la mamma viene sempre prima mio fratello.

Papà si arrabbia perché stiamo giocando sul letto di mio fratello, sotto una coperta. Dice di uscire da lì, è davvero arrabbiato ma noi non stiamo facendo niente di male. O no?

 

Forse ne ho cinque, sei, vado a scuola quindi ne ho sei.

Li sento, di notte. Io dormo nella camera di mamma e papà e li sento.

Una volta hanno acceso la luce e sono venuti a guardarmi:

"Dorme?"

 "Mi sembra che faccia finta."

"No, dorme."

"Dici che ha sentito?"

Era difficile fare finta di dormire, non dovevo muovermi, dovevo fare il respiro pesante di quando dormono loro, senza muovere gli occhi e loro continuavano a stare lì per vedere se facevo finta!

A volte mi alzo dal letto e cammino, di notte. Lo so perché qualche volta mi sveglio davanti all'armadio o davanti alla porta chiusa e allora torno a letto.

 

Uffa! Il papà mi chiama dal bagno perché gli devo lavare la schiena! A me non piace, prima mi piaceva ma adesso no, non voglio più! Allora faccio in fretta ma lui mi dice che faccio troppo in fretta, che non passo bene la spugna. Ma io faccio in fretta e vado via.

 

Il dottore ha detto che non ho i pidocchi, che è una specie di tic. Mi gratto sempre la testa, si formano delle crosticine perché mi gratto tanto e mi esce il sangue. Il dottore ha anche detto che ho bisogno degli occhiali "riposa vista" perché ho un altro tic. Siamo dal dottore, io, la mamma e il papà. Non lo so perché siamo lì tutti insieme, su tre sedie, davanti alla scrivania del dottore. Il dottore chiede al papà come vanno le cose con la mamma. "Eh, ha un carattere forte, mi sono dovuto piegare.".

 

"Oh, ma sei sempre in bagno!" Ho undici anni, da pochi mesi studio chitarra classica e sono già in grado di strimpellare le canzoni di Lucio Battisti, sono brava, sono intonata, mi porto la chitarra in bagno e suono seduta sul water. Non ci riesco, se non mi porto la chitarra. Non ci riesco se qualcuno entra e loro entrano sempre. Papà sta in mutande e si aggiusta i baffi allo specchio e ci mette un sacco di tempo! Mio fratello riempie la vasca e si fa il bagno e io non ci riesco! E tante volte quando sono in bagno lui entra, mi fa i dispetti anche lì...

 

Ho tredici, quattordici anni, è estate e sono in metropolitana con la zia. Lei mi dice di smettere di grattarmi il braccio: "Guarda che segni, ti esce anche il sangue, dai, smettila".

Tenevo sempre in tasca un coltellino, mi facevo dei piccoli tagli qua e là sulla pelle, volevo far uscire il sangue. A volte pensavo di tagliarmi una vena. A volte prendevo le lamette da barba di papà e pensavo di farlo. Non mi hanno mai proibito di tenere dei coltelli, ora che sono grande ne ho una vasta collezione; li ho usati tutti.

 

Da bambina mi chiudevo nello sgabuzzino, dove c'erano la lavatrice, la scarpiera e la cassetta degli attrezzi di papà, ci stavo ore ed ore. Era tranquillo, la luce era fioca, una sola lampadina appesa a un filo, chiudevo a chiave la porta e stavo lì a giocare con piccoli pezzi di stagno e il martello o la pinza... forgiavo dei piccoli coltelli.

Lo stanzino buio, il mio rifugio. E' lì che ho imparato a isolarmi da loro, ho imparato a isolarmi e a giocare con i coltelli e le altre cose che possono far male.

 

Lo stanzino buio me lo porto dentro, adesso che sono grande. A volte ci torno, nelle giornate storte, quelle dove tutto mi fa male.

Fino a poco tempo fa non lo avevo capito, me lo porto dentro e mi isolo. Ora so che posso scegliere se tornarci oppure no, allora, da bambina, non avevo scelta.

E' confortevole, è caldo, l'odore acre del lucido da scarpe mi piace, i coltellini mi riescono proprio bene ed è quasi buio...

 

 

 

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