«Pronto, sì? Dimmi, Iole. Hai ordinato il completino? Hai fatto bene. Il compleanno dei gemelli? Sì, certo che mi ricordo la torta. Tuo marito? Ha ottenuto punti d’invalidità? Uhm… quanti? Così tanti, però eh, caspita…»

Perché quel “caspita” le era uscito così strascicato e invidioso, si chiese la Tilde, e cos’era quell’improvviso magone? «Bene, bene, sono felice per voi». Mise giù la cornetta con un senso di scontentezza crescente.

«Tilde, amore…»

Dalla stanza accanto Gino, suo marito, le lanciò un bacio sulla punta delle dita e sorrise coi suoi trentadue denti da pubblicità di dentifricio. Aveva appena ripudiato i calzoncini da tennis in favore della tuta da jogging. «Io esco, amore.»

«Sì, vai, vai.»

La Tilde Tacconi andò in cerca di un fazzoletto perché sapeva che presto il magone sarebbe evoluto in lacrime amare. Si affacciò alla finestra e guardò Gino che, appena sbucato dal portone, già accennava i balzelli elastici della sua corsa. Lo fissò con tutta l’attenzione possibile, fece schermo al sole con la mano aperta, strizzò gli occhi per vedere meglio.

Niente da fare. Gino era irrimediabilmente giovane, bello e sano.

Ogni giorno, scalpitante come un puledro allo start, timbrava il cartellino allo scoccare delle diciassette. Dopo cinque minuti era già sul campo da tennis, dove non sbagliava mai un colpo. L’idolo degli amici, saltava e guizzava sul terreno di gioco mentre dal bordo le signore lanciavano occhiate vogliose ai suoi muscoli da discobolo greco.

Tilde non era gelosa, no. Tilde si vergognava.

Un uomo che guadagnava mille euro il mese era ridicolo con quell’abbronzatura da barca a vela. Gli impiegatucci, gli scribacchini, le oscure mezze maniche perse nei sottoscala dell’azienda come lui non hanno la sfacciataggine d’essere belli e felici come se possedessero panfili e macchine da corsa.

Le lacrime traboccarono, calde ed inesorabili. Com’erano fortunate le sue amiche, la Iole, la Vanda, la Sirte, ad avere quei maritini pelati ed asmatici, panciuti e colitici, che giravano col digestivo in tasca e le pillole per la pressione nel portafoglio. Tutte le fortune capitavano alle altre.

Il marito di quella linguacciuta della Iole s’era allevato la sua bronchite come un figlio piccolo, fino a farsi venire un bell’enfisema coi fiocchi, capace di regalarti tutti quei punti d’invalidità in un colpo solo. Ora, si sa, tempo un mese avrebbe fatto un bel passo avanti e allora chi la reggeva più la Iole. Chissà quanto si sarebbe vantata della sua nuova posizione! Che le venisse un accidente, a lei, a suo marito e a quelle bestie dei gemelli.

Cosa gli sarebbe costato al suo Gino di ammalarsi un po’, magari solo un tantino per farla contenta, per strappare qualche punto all’annuale visita di controllo dell’azienda?

Macché.

Ogni volta il medico si congratulava: «Complimenti Tacconi, lei ha occhi di falco, polmoni perfetti e cuore d’atleta.»

E quell’idiota di Gino tornava a casa felice. «Il dottore ha assicurato che sono sano come un pesce» la informava, stringendola forte da toglierle il fiato, senza capire che per lei quelle parole erano una coltellata.

Ah, ma lo aveva sempre detto la mamma che Gino non avrebbe mai mosso un dito per far carriera! A quei tempi lei, accecata dall’amore, non ci aveva dato peso. Pensava che alla fine Gino avrebbe messo la testa a posto, si sarebbe dato da fare per guadagnare di più.

Invece niente. Tennis e jogging, jogging e palestra, palestra e piscina. Una condanna.

La sera, dopo cena, Tilde raccontò a Gino la fortuna che era capitata alla Iole Grimaldi. Gli disse quanto lei, invece, si sentisse triste ed infelice. Gli ricordò i suoi doveri di padre di famiglia. Spiegò che i bambini a scuola si vergognavano, dovendo confessare ai figli degli avvocati e degli ingegneri che il loro padre era un modestissimo impiegato aziendale.

«Ma, amore» si difese Gino «i bambini crescono bene, non abbiamo debiti, la casa è di proprietà. Siamo felici anche così.»

«Tu!» ruggì Tilde, «tu sei felice! Perché sei un incosciente! Sei contento come una Pasqua di quel misero impiego, di questi quattro soldi, degli stracci che indossa tua moglie. Eh, certo, perché tanto, poi, il signorino si fa una bella partita a tennis e una corsa nel parco. Ah, ma aveva ragione la mamma! Perché non l’ho ascoltata?»

Per ore Tilde pianse, gridò, fece appello al senso del dovere, rivangò la magia del loro primo incontro, minacciò il divorzio. Finalmente, attorno alla mezzanotte, un Gino frastornato e insonnolito ammise che, forse, era un po’ immaturo per un uomo di trentacinque anni essere ancora tanto atletico e in salute.

Tilde allora si alzò dal divano e scomparve per qualche istante. Tornò con un misterioso pacchetto che scartò con amore. Apparve una boccettina e lei la sorresse con mani tremanti, come una reliquia. «Ecco, tesoro.»

«Che cos’è, cara?» chiese lui, sbadigliando.

Tilde lo baciò con devozione sulla guancia. «Oh, amore, non è niente. È una cosina che tenevo in serbo per te, per quando ti fossi deciso. Sapessi quanto l’ho pagata, Ginuccio.»

«Sì, ma cos’è?»

«Ma, niente, ti ho detto. È… è solo acido farnetico.»

Gino spalancò gli occhi, fece un balzo che catapultò il gatto giù dal divano.  «Acido farnetico! Ma è paralizzante! Sei diventata matta, non vorrai fami prendere quella roba!»

Tilde era arrivata al culmine della pazienza. Tanta ingratitudine da parte di Gino le pareva crudele. Si sforzò di mantenere un tono calmo. «Via, Ginuccio, non sentirai niente. Sarà un momento. Ti darà un deficit lievissimo e otterrai qualche punto. Su, fallo per me, apri la boccuccia, guarda, ti ci metto anche lo zucchero, da bravo!»

Gino strabuzzò gli occhi, fece di no con la testa, serrò le labbra, tanto che Tilde fu costretta a fargli gli occhiacci e a ricordargli che, se non si decideva a spalancare quella benedetta bocca, avrebbe chiesto la custodia dei bambini.

Prima d’ingoiare lo zuccherino bagnato con tre gocce di acido farnetico, Gino strinse forte a sé la moglie. «Ti amo tanto, Tilde. Amo te e i ragazzi.»

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