Stazione Centrale, Milano. Orario: poco prima della partenza.

Il piccolo bagaglio che mi trascinavo dietro non era niente a confronto del mal di testa che mi comprimeva tutto il cranio. (Caro lettore, ho iniziato appositamente questo racconto senza virgola, per farti capire quanto ero stressato.)

Torniamo a noi… ero appena entrato alla stazione. La sera precedente ero a Torino, un amico dopo la partita allo stadio mi portò in giro, mi disse esattamente così: “Andiamo a mangiare e bere qualcosa, facciamo un giro e dopo ti riaccompagno in hotel.” Questa versione dei fatti può anche andarmi bene, se solo lasceremo in disparte solo alcuni dettagli.

 

Subito dopo la partita, uscii dallo stadio, andai al primo chiosco e presi una birra, la bevvi in una sorsata: secca e diretta. Subito dopo, chiamai lui e gli dissi che avevamo passato il passaggio di coppa e che non ero pronto a festeggiare come avevo promesso, avevo solo una dinamite in testa pronta a scoppiare da un momento all’altro. Gli spiegai dov’ero, lo aspettai al solito posto, ma con qualche birra di più.

Mi appoggiai sul tavolino, accasciato come ai tempi della scuola, a quei tempi ero annoiato da tutti quei professori falliti, in quel e in questo momento ero solo stanco di una vita che non mi tornava più indietro il mio debito.

Sentii scuotermi ed una voce che mi bussava:

<<Non cambi mai. Hai sempre bottiglie attorno.>>

Mi alzai lentamente, guardai il mio amico quasi con indifferenza e stanchezza, mi alzai per salutarlo.

Mentre ci abbracciammo, mi disse ancora una volta:

<<Vecchio mio, non cambi mai. Sei tale e quale, non cambi mai!>>

<<Mi mantengo in forma, semplicemente.>>

<<Si come no. Ti mantieni in forma alzando bottiglie!>>

Ancora dovevo svegliarmi del tutto, lo guardai in segno di pace. La mia voglia di parlare era quasi inesistente. <<Ho fame, sete e sonno. Per di più ho mal di testa, sono due notti che non dormo. Portami da qualche parte ma facciamo presto.>>

<<Andiamo a mangiare e bere qualcosa, facciamo un giro e dopo ti riaccompagno in hotel.>>

<<Perfetto.>>

Andammo a finire in un piccolo locale. Presi un panino, una spina grande e una buona dose di pura stanchezza. Lui parlava, parlava e ancora raccontava di tutto quel gli passava dalla testa. In breve, aveva trovato lavoro come autista in città. Voleva farmi credere che se la spassava, voleva farsi invidiare, un po’ come fanno la maggior parte delle persone. In fondo, sapevo bene che non era così felice come voleva farmi credere. Ancora aveva in corpo tutto quello che la sua ex donna gli avevo trasmesso: vera e totale sofferenza per una storia andata a male, una di quelle storie dove un uomo vuole più di se stesso quella donna, dove non avere gli occhi di lei di fronte ai suoi significa morire, morire di una morte che non lascia scampo né respiri. Un uomo senza quell’unica donna che farà la differenza, non sarà mai come prima. Una condanna a morte per la vita.

Riassumendo, provò in qualche modo a farmi credere alla sua felicità, ed io, per il suo bene, feci finta e credetti alla sua felicità.

Avevo lo stomaco pieno, come la mia testa, delle sue parole e di quel dolore lancinante che mi comprimeva le tempie. Pagammo il conto. Uscimmo dal locale, mi propose di fare un giro in macchina, mi assicurò che mi avrebbe portato in un posto interessante e che avremmo fatto subito; io accettai.

Arrivammo a destinazione. Si fermò appena all’inizio di una grande via, larga e poco illuminata. Non mi accorsi subito della situazione. Il traffico era lento e calmo, le macchine si fermavano ai bordi della strada e ripartivano subito. Eravamo al centro della distribuzione di carne umana. Man mano che la mia vista iniziava a focalizzare, riconobbi venditrici di carne di tutte le razze e di tutte le età. Mi voltai verso il mio amico, come per dirgli “non ho voglia di spassarmela, soprattutto se devo pagare”, lui ricambiò il mio sguardo con un sorriso quasi da demente e mi disse:

<<A volte vengo qui e mi faccio quattro risate, è un modo come un altro per tirarmi su.>>

<<In che modo?>> risposi quasi sottovoce.

<<Semplice>>, prese un cronometro dal cruscotto, <<tra non molto arriverà una macchina qualsiasi, prenderà una ragazza dalla strada, la porterà con sé dentro la via a sinistra, proprio questa alla nostra sinistra, la vedi? Lì dentro c’è una piazzola dove vanno tutti a consumare il rapporto.>>

Lo guardai con un’espressione inspiegabile, lui ancora con quel sorriso da iena mi disse:

<<Non guardarmi così, aspetta e vedrai. Ecco…ecco arriva una macchina. Secondo me questo fa meno di cinque minuti. Più le macchine sono grosse, prima se ne vengono. E’ la regola.>>

Seguii con lo sguardo la macchina entrare nella via. Qualche secondo dopo, sentii mormorare: “Ho avviato il cronometro. Ti ripeto, secondo me fa meno di cinque minuti, anche quattro.”

I numeri del cronometro non avevano pace, sfrecciavano in quel nostro tempo e lo riempivano d’importanza insensata. Lui mi guardava, fremeva, non stava più nella pelle, rideva di quel passatempo consolatorio.

<<Ci siamo! STOP! Quattro minuti e trentotto secondi: avevo ragione! Togli il tempo delle trattative, il tempo della consegna dei soldi, poi il tempo di svestirsi, vestirsi e resettarsi. Cazzo ma t’immagini, 50 dobloni buttati via in due minuti. Neanche il tempo di masticare il boccone. Fanno la fame per tutti quei soldi. AHAHAHAH! Povere vittime, poveri ingenui. Comprano solo solitudine! Aspettiamo la prossima macchina, sono sicuro che farà ancora meno. Non ti fa ridere tutto ciò?>>

Ricambiai il suo sguardo, e con un sorriso di assenso gli feci capire che ero dalla sua parte.

Guardando quel via vai di macchine, pensai a quanto sia caduto in basso l’uomo, a quanto continuiamo a dimostrare che siamo animali. Siamo talmente tristi che ci illudiamo che possiamo comprare la felicità per due minuti di sfogo.

Ad ogni macchina che arrivava per lui era motivo di eccitazione. Mi guardava con quei suoi occhi grandi, il suo sorriso si allargava sempre più e le sue mani indicavano, prepotenti, ogni macchina che passava. Io ricambiavo. Un lampo mi balenò per la mente, e gli chiesi:

<<Tu ci sei mai stato da una di loro?>>

Lui per un attimo divenne serio, si spaventò della mia domanda. Sapeva che a me non poteva mentire, in caso me ne sarei accorto.

<<Si, si. Ci sono stato. Due minuti e mezzo. Esattamente, due minuti e mezzo ci sono stato.>>

Mi guardò con aria di vergogna, aspettava paurosamente una mia reazione. Io scoppiai a ridere a crepa pelle. Risi fino al pianto. Lui mi seguì senza più timore. Ridemmo di noi e di tutti.

La serata proseguii così. Mi addormentai in macchina tra le sue risate. Mi risvegliai sotto l’ingresso dell’hotel. Ci salutammo come due vecchi amici, con la sicurezza che ci saremmo rivisti un giorno e, se non ci fossimo riusciti, sarebbe stato uguale.

 

Ero ancora alla stazione, dovevo prendere il treno che mi avrebbe portato all’aeroporto. La notte avevo dormito poco e bene. Il mal di testa si era alleviato, mi portavo dietro solo la voglia di andare via da lì. Mi accorsi che il treno stava per partire. Accelerai il passo, non mi sarei potuto permettere di perdere il treno, ero rimasto al verde.

<<Scusi in che binario è il treno per l’aeroporto?>>, chiesi ad uomo in divisa.

<<Al binario 5.>> rispose con sicurezza.

<<Tra quanto parte?>>

Guardò il suo orologio da polso e disse:

<<Due minuti e mezzo.>>

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