Quattro anni fa, quando mi sono trasferito in questo palazzone putrido e spelacchiato, non cercavo niente di speciale, solo un buco abbastanza economico dove le pareti non mi ricordassero mia moglie. Ero fresco di separazione, fresco di licenziamento, fresco anche di una depressione che mi scavava le ossa come un tarlo. Questo scatolone di cemento anni Sessanta, venti piani incastrati tra altri scatoloni uguali, puzzava di muffa e di fumo stantio, aveva le mura scrostate, le ringhiere arrugginite e le porte sgangherate. Ma poi ho scoperto qualcosa che per me è stata come la manna piovuta dal cielo: un lastrico solare accessibile dal vano scale. Uno terrazzo da cui vedere tutta  la città, distesa come un lenzuolo sporco e una marea di finestre accese, abbastanza vicine da entrare in ogni stanza con un solo sguardo. È lì che ho ricominciato a respirare, notte dopo notte, guardando vite altrui per non pensare alla mia.

Non so esattamente quando ho preso l’abitudine di passare il mondo al setaccio. Da ragazzino trascorrevo ore sul balcone di casa a fissare le finestre di fronte: tende scostate, TV accese, figure che andavano avanti e indietro, ombre su ombre. Mia madre mi gridava di entrare, di fare i compiti, di smetterla di perdere tempo. Ma io non perdevo tempo: registravo tutto, senza sapere ancora che un giorno mi sarebbe servito.

Forse è questa mania che mi ha fatto diventare uno scrittore, o forse è l’opposto: scrivo perché non riesco a stare nella mia pelle. Non mi guardo allo specchio. Mi riconosco solo quando vedo cosa nascondono gli altri. Più loro credono di non essere visti, più io li vedo chiari — e dentro quella trasparenza ritrovo me stesso, pezzo per pezzo.

Lo faccio ogni giorno. La mattina presto entro in un bar qualsiasi, ordino un caffè e lo bevo piano, più per avere una scusa che per bisogno. Scelgo un angolo dove posso osservare senza farmi notare. Studio la gente. All’inizio sono solo i contorni: il marito infedele che si è tolto la fede per incontrare un’altra donna, la studentessa che apre e chiude il quaderno senza scrivere nulla, il barista che fa il simpatico con le sue battutine, mentre cerca di mascherare il tremore delle mani.

Poi comincio a infilarmi sotto la pelle. Vedo il litigio che quell’uomo avrà con la moglie quando rientrerà a casa, la mail di addio che la studentessa ha iniziato stanotte e non invierà mai, la bustina di ansiolitici nascosta nella tasca del barista. Nessuno di loro mi guarda, nessuno sa che sto raccogliendo le briciole delle loro vite. Forse me le invento, forse le ricompongo a modo mio, come un puzzle di pezzi sparsi. Ma quando chiudo gli occhi, sono sicuro che esistano davvero.

Quando mi stanco del bar, esco e vado al parco. Prima passeggio un po’, poi mi siedo su una panchina. Scruto le coppie che discutono e si sussurrano insulti con voce dolce, seguo i cani che strattonano il guinzaglio come se potessero sfuggire alla loro prigionia. A volte fisso un vecchio che parla al vuoto: dentro di me sento le sue frasi spezzate, la moglie morta troppo presto, il figlio che non chiama più, la sua vita scivolata via senza lasciare niente.

Dopo alcune ore torno a casa, accendo una sigaretta e lascio che la stanza si riempia di fumo e la mia testa di voci. Non scrivo subito. Prima devo lasciar sedimentare quel liquame grezzo dentro di me, mescolarlo con le mie bugie, distillarlo finché non somiglia a una verità. Non so se davvero vedo quello che dico di vedere o se lo invento per non sentirmi vuoto. Forse è la stessa cosa.

E la sera salgo sul terrazzo. E’ il momento più vero. Qui le persone sono in casa, non devono fingere come per strada, non si aspettano di essere guardate. Io invece le guardo da lontano, raccolgo quello che nessuno pensa di mostrare. 

E poi quassù tira sempre un filo d’aria pulita che non arriva mai giù, tra le scale puzzolenti e la moquette consunta del mio appartamento. Mi porto una sedia pieghevole, appoggio i piedi sul parapetto basso e tiro fuori il vecchio Zeiss Dialyt di mio padre — un tubo corto, vernice nera opaca, Made in West Germany inciso di lato.

Nonostante i suoi quarant’anni, questo cannocchiale mantiene ancora una nitidezza che umilia certi giocattoli di plastica di adesso: dieci ingrandimenti fissi, campo visivo largo abbastanza da aprire la città come un pesce sotto la lama.

Non so per quale motivo mio padre me l’ha regalato. Forse aveva capito che non ero fatto per guardare le cose da vicino. A me serve distanza: vedere senza essere visto. Stanare la verità quando pensa di essere al sicuro.

Dietro ogni finestra c’è un pezzo di verità che di giorno si nasconde: una mano che scivola sotto una camicia, una lite soffocata dietro tende leggere, un ragazzo che fuma di nascosto sul balcone.

Ho passato anni a scandagliare ogni millimetro e pensavo di aver scoperto tutto di tutti... fino a quando non ho visto quella dannata famiglia.

 

Sedicesimo piano, palazzo di fronte. Si vede una piccola sala da pranzo con un tavolo apparecchiato, con tovaglia e stoviglie ma senza cibo. Attorno al tavolo siedono in tre: un uomo, una donna e un bambino, con le mani in grembo e la schiena dritta. Restano fermi, senza toccarsi e senza guardarsi, come se qualcuno li avesse dimenticati lì, congelati in una posa innaturale.

Cerco di mettere a fuoco. Aspetto un segno: che uno si alzi, che prenda un bicchiere, che tossisca o almeno alzi un sopracciglio. Niente. Delle statue di cera.

Un brivido mi scorre lungo la nuca ma resto lì, con l’occhio incollato alla lente, finché mi bruciano le palpebre. Poi spengo la sigaretta contro il parapetto, chiudo il cannocchiale e scendo di sotto con la testa infestata di domande.

Nel letto sudo. Mi ripeto che è stato un caso: un momento di silenzio familiare, una posa strana, una coincidenza. 

Ma chi diavolo resta immobile così per un’ora? Adesso faccio anche finta di credere alle mie stesse panzane. Ma dai! Sicuramente c’è una spiegazione migliore. Qualcuno ha messo dei manichini. O forse ha proiettato un’immagine fissa sul vetro, aspettando il primo citrullo come me che ci cascasse.

Ma poi, chi se ne frega. Storia chiusa. Domani guarderò altre cose, anzi non voglio neanche salire sul terrazzo.

Tutte stupidaggini. So già che domani sarò di nuovo lì. Lo so mentre chiudo gli occhi per fingere con me stesso che sto dormendo.

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