Tutto d’un tratto, nella quiete più assoluta, delle grida assillanti echeggiarono dalla foresta circostante, e catturarono malgrado la mia attenzione. Urla di paura, cariche di angoscia, roba da cagarsi addosso se non fosse stato per i muscoli del corpo in contrazione. Mi guardai velocemente intorno, Wendi non c’era più. Rincasai per avvisare il Mozzo, ma anche lui pareva essere svanito nel nulla. Ero solo. Decisi di farmi coraggio ed affrontare l’oscurità della foresta. Senza luci a disposizione mi armai di un vecchio coltellino svizzero malmesso, utilizzato per anni prevalentemente come apri bottiglia, e mi feci strada nella notte buia.

Lo scenario da film dell’orrore condizionava e non poco. Le urla si fecero via via più acute. Il soffio del vento ora fischiava incessantemente tra gli alberi di Pioppo. La nebbia fitta complicava la camminata incerta. Tutto d’un tratto delle luci intermittenti apparirono alla distanza. Mi bloccai sul posto per un secondo prima di ripartire lentamente. Dei passi dalle retrovie si fecero man mano più intensi. Mi voltai ma era troppo buio per capirci qualcosa. Neanche il tempo di rigirare la testa e, proprio lì di fronte a me, dal basso una figura senza forme si alzò di scatto. Il bagliore della torcia che stringeva tra le mani mi accecò di colpo. Urlò fortissimo. Io ancora di più. Dalle spalle una mano cercò di afferrarmi il braccio. Mi girai con agilità, e con un colpo repentino affettai tutto ciò che si oppose tra la lama del mio coltellino svizzero e l’oscurità che la circondava. Grida di dolore, paura e disperazione coprirono per un attimo il silenzio assordante di Forte Espinoza. E poi la luce si fece più tersa. E la foresta prese improvvisamente forma. Con in mano una torcia, una Wendi visibilmente scossa mi indicò qualcosa alle spalle. Mi voltai. Dietro di me solo John il Mozzo, inerme, con lo sguardo impietrito; fisso sulle due dita della mano destra che ormai giacevano su un manto di neve non più candida. Rimasi sul posto nell’incredulità generale. Merda, ancora lui. Ancora il Mozzo. Sempre il Mozzo. Da anni che fa a cazzotti con la malasorte, e puntualmente viene messo ko alla prima ripresa. Presi un respiro profondo, chiusi gli occhi per un secondo con la speranza di risvegliarmi da quel brutto incubo, magari ancora sudaticcio nel letto di casa. Cercai di riaprirli lentamente, ma tutto rimase dannatamente uguale a prima. Non avevo idea di cosa stesse succedendo. Scoprii tutto poco più tardi, in auto, sulla strada per l’ospedale; con il Mozzo ancora agonizzante, questa volta senza sguardo fiero e soprattutto senza fagiano, e con altre due dita nella tasca dei pantaloni. La burla del secolo fu architettata da Wendi stessa con l’intento di farmi prendere uno spavento, per poi “farsi due risate tutti insieme”. Ovviamente nulla sarebbe riuscito se non fosse stato per la maestrale partecipazione di John il Mozzo che, con la iellaccia nera che si ritrova addosso, da ospite d’onore divenne vittima sacrificale. Solo loro due potevano escogitare un qualcosa di così fallimentare. L’importante è che si siano divertiti.


Di ritorno alla baita, nel pieno della notte, Morfeo tardava ad arrivare, e non bastò un altro whisky liscio per lasciarsi rapire dall’incanto dei sogni più profondi. A passi lenti varcai l’uscio della porta della stanza di Wendi. La trovai all’impiedi a guardare fuori dalla finestra appannata, persa ancora una volta a camminare con la mente quel tappeto di stelle infinite. Il fioco chiarore della candela sul davanzale illuminava a malapena l’ambiente circostante. Forse era proprio quello il sogno che stavo aspettando. Quella notte ballammo, sul tappeto di stelle, e proprio come la prima volta, il mondo intorno a noi pareva essere immobile.

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