Ho una cicatrice sul braccio destro, qualche passo avanti la curva della spalla, se osservata con la dovuta attenzione pare la sagoma di un piccolo pugnale, racchiude perfettamente la sua storia.
Il sole dall’angolo della finestra si proiettava esattamente sulla tavoletta del nostro bagno, era una tiepida mattina di settembre, lui sedeva proprio lì.
Aveva il viso rilassato, l’espressione di chi dopo una sconfinata ricerca si ritrova finalmente fra le mani ciò per cui l’ha iniziata, eppure non sa che farsene; le braccia si appoggiavano morbide sulle gambe, le mani intrecciate fluttuavano nel vuoto che riempiva lo spazio tra Alessio e le piastrelle.
Un’espressione pensierosa dipingeva il suo volto, ultimamente le cose non stavano procedendo esattamente in modo lineare, la strada era sommersa da ostacoli e noi stanchi cominciavamo a inciamparci sopra, come quando in balia dell’alcol si cammina sui cubetti e i passi si incastrano l’uno sull’altro.
Ero posizionata tra le sue cosce, il polso mi tremava, avevo deciso di fargli la barba, speravo che dentro un gesto così semplice avrei trovato la combinazione per aprire la porta blindata che ormai aveva messo le radici tra me e lui, mi mancava.
Ricordo ancora il rumore dell’acqua, borbottava ogni volta in cui ci scuotevo la lama dentro per ripulirla, ricordo la consistenza della bianca schiuma, densa sulla sua pelle, in contrasto col rosso delle guance; delicatamente avevo appoggiato il rasoio e partendo dalle gote creato uno spiraglio rettangolare.
Una ciocca di capelli si era divincolata dalla mia acconciatura disordinata cadendomi sulla fronte, coprendo così parte della visuale, provai a spingerla nuovamente al suo posto con un soffio deciso, naturalmente fallendo.
Aveva accennato un mezzo sorriso intenerito, forse divertito e poi accompagnato da una spontaneità del tutto inaspettata, con l’indice della mano sinistra aveva accarezzato il mio viso, delicatamente, finendo per spostare la ciocca ribelle adagiandola dietro l’orecchio.
Si soffermò un po’, dopo aver percorso il mio collo, scendendo lungo le spalle fino ad arrivare ai fianchi, la pelle d’oca mi costellava il corpo, immobile, con la lama che ancora premeva sulla mascella lo guardavo.
Col pollice sfiorai le sue labbra carnose, la bocca aveva preso a seccarsi, il respiro a diventare più pesante e il cuore a bussare contro il mio petto, in procinto di esplodere.
Ci scambiammo uno sguardo intenso, di quelli che si incollano e poi non li scolli più, il blu immenso dei suoi occhi si era incastrato nei miei, in un attimo mille mattonelle avevano incominciato a sgretolarsi sollevando una polvere così alta da annebbiare le menti, confondendo la realtà.
Come due calamite le nostre labbra avevano raggiunto la distanza minima, sarebbe bastato un millimetro in più per cedere all’attrazione e unirsi, le emozioni finirono per tradirmi e così, contro ogni razionalità, mi ero fiondata sulla sua bocca.
La reazione fu immediata, chimica come quella che ci aveva trascinato in quel malsano rapporto, conoscevo a memoria i movimenti della sua lingua, eppure non smettevo di essere colta alla sprovvista dalla quantità di sensazioni che mi trascinavano via con loro, in un vortice che mi avrebbe risucchiata e riportata al fondo.
Fu un bacio disperato, fuggente, intriso nella spaventosa consapevolezza che il tempo è fugace e un attimo vola via leggero senza badare a cosa si lascia dietro le spalle.
Incrociai le braccia dietro la sua nuca salendo a cavalcioni con le gambe, lui mi strinse forte, sentivo la pressione delle mani grandi che premevano sulla schiena quasi a voler superare i confini fisici e diventare un tutt’uno.
L’adrenalina lo fece muovere in modo impulsivo, scattando in piedi mi adagiò sul lavello in marmo; così la lama che impugnavo con la mano sinistra era finita col penetrarmi appena sotto la spalla del braccio destro, gemetti e lui mi strinse più forte, aumentando il bruciore di quel taglio, non se ne era reso conto, io non avevo permesso che un po’ di sangue rovinasse la mia boccata d’ossigeno.
Ero incastrata e l’unico modo per liberarmi del dolore era allontanarmi da lui, questo racchiudeva tutto il filo conduttore del nostro rapporto, perché io preferivo patire e sanguinare piuttosto che perderlo.
Amarti significava soffrire, silenziosamente, lontano dai tuoi occhi eppure sotto il tuo naso.