L’amicizia è uno stato della condizione umana. Nemmeno nella sublimazione della clausura si può disconoscere. In quel caso Dio chiede di essere amato sopra ogni cosa ma chiede anche di essere amico del genere umano: “…non c’è comandamento più grande del donare la vita per i propri amici…”. Il suo senso nasce da un impulso primordiale che prende corpo quando si viene al mondo. Al contrario di Platone non credo sia l’eredità per l’età adulta. Dà protezione e sicurezza in modo inversamente proporzionale al passare del tempo e comunque non si esclude mai. Con gli anni scende nelle profondità della nostra esperienza e regala libertà. Ci fa capire che la relazione con il mondo può essere variabile ma ha bisogno di pochi punti cardinali, quali gli amici appunto, per nutrirsi di vita e nel contempo donare qualcosa di noi che possa sopravviverci. E’ il tabernacolo onnicomprensivo dei nostri pensieri. Per amicizia si lascia, in caso di conflitto, uno spiraglio di discussione, di possibilità di tornare a confrontare opinioni diverse all’ombra protettiva di ricordi comuni.

Non conosce confini di genere anche se certa storia ne narra come di un privilegio riservato al sesso maschile. Il mito è nato forse sulle ferite dei campi di battaglia dove solo gli uomini erano attori. Certamente c’erano ragioni molto valide perché si sviluppassero: salvataggi, protezione, un’agire condiviso. Per la mia conoscenza del mondo ho visto amicizie femminili vissute senza ambiguità, temperate dal tempo e dalle difficoltà.

Quest’armonia, se diventa sapienza, è  personale e ci chiede di trattare l’altro come un fine e non come un mezzo. So che molti sorrisi ironici si formano dopo quest’asserzione ma se l’analizziamo senza pregiudizi non si può che concordare se vogliamo dare valore a questo sentimento.

Perché di questo si tratta: entra prepotentemente nella nostra vita è lì rimane, punto di riferimento nei momenti difficili quando sembra che nessuno possa ascoltarci. Scuote il nostro pensare e difficilmente satura per eccesso di relazione.

Ha in sé il seme del tragico. Non solo perché deve fatalmente incontrare la morte ma a volte deve subire la forza degli eventi. Il mio amico Sergio che ho incontrato il 15 ottobre 1950, 40 anni fa si è trasferito in un’altra città. Il legame non si è mai spezzato ma il necessario nutrimento fatto di incontri-scontri che ne alimenta il valore si è rarefatto diventando esangue. Non comprendo più alcune sue scelte e sono assente in quei momenti che, solo a posteriori, ritengo bisognosi di aiuto.

Ieri sera ho cenato con Stefano, Gianni e Felice. Abbiamo ritrovato la vecchia trattoria dove si cucinava bene e a poco prezzo. Era stata venduta ai cinesi che l’avevano ristrutturata, le avevano tolto la patina demodé della vecchia osteria di quartiere e avevano alzato i prezzi. E’ ritornata ai vecchi proprietari ma l’atmosfera di un tempo, quelle vecchie tovaglie a quadri bianchi e rossi, non ci sono più. La cucina è fortunatamente ai livelli che ci aspettavamo. Ci siamo lasciati andare, la nostalgia del passato ci ha preso e il tempo è passato veloce. Abbiamo riso, è vero, ma abbiamo anche usato troppo il passato remoto.

L’inesorabile legge della vita ci consegna ad esami molto duri: le cose non dette, le cose non fatte, i se e i ma di tutti i giorni. L’amicizia è ancora un tabernacolo ma se non troviamo nuovi perché rischia di morire d’inedia.

E’ questo il tragico che lentamente emerge. Tutto il resto è silenzio.

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