Da quando ho scoperto il piacere della scrittura sono solita portare dentro la borsa una penna e un blocco di carta, sempre pronti nel caso in cui mi dovesse venire un’improvvisa ispirazione.

In realtà mi capita di rado di tirarli fuori, quasi mai mi metto seduta e dico “ ora scrivo”. Nella maggior parte dei casi le storie mi vengono in mente nei momenti più disparati: mentre faccio la spesa, passeggio o cucino. Così, le annoto nella mente; ci penso, rifletto, immagino... e solo quando l’idea è quasi completamente chiara inizio a scrivere.

Il problema è decidere quale sia più pronta delle altre. Scegliere è tutt’altro che facile, sì, perché non hanno l’accortezza di arrivare una per volta, ma si accavallano, si intrecciano, e urlano per avere la precedenza. È necessaria una certa pausa di riflessione, così,  quando qualche mese fa mi si presentò l’occasione di prendere un treno interregionale per andare a trovare un’amica, non mi sembrò vero: quasi due ore di completa solitudine e pace in compagnia della mia penna e del mio blocco.

Decisi di salire sull’ultima carrozza che, essendo la più rumorosa, è anche, di regola, la meno affollata. Ai due lati del corridoio centrale vi erano dei moduli formati da due coppie di poltroncine, una di fronte all’altra, separate da un tavolino centrale. Ne occupai uno che era completamente libero e mi sedetti nel posto vicino al finestrino. Nel modulo accanto al mio sedeva una donna intenta a leggere un giornale di pettegolezzi, con lei un bimbo di circa sei anni che giocava con un tablet: indossava una maglia a righe, dei calzoni corti, e sandali aperti. Mi fissava incuriosito mentre tiravo fuori dalla borsa il mio quadernetto, sembrava chiedersi cosa avessi mai da scrivere visto che la scuola era chiusa per le vacanze estive. Avrei voluto spiegargli che, al pari del suo, anche il mio era un passatempo divertente ma non avendo voglia di conversare lo ignorai.

Dopo circa un’ora di viaggio il treno si fermò a una stazione intermedia e sul nostro vagone salì un ragazzo che, invece di prendere posto, si fermò per qualche istante ad osservare i passeggeri. Aveva una corporatura piuttosto robusta e indossava un pantalone e una maglia molto larghi, probabilmente scelti per cercare di nascondere, ahimè invano, le sue rotondità. Con entrambe le mani stringeva un piccolo sacchetto di carta: la generale rigidità del corpo, la fronte corrugata e gli occhi leggermente strizzati mi portarono chissà perché a pensare che avesse un certo dolore nell’anima. Il nostro sguardo si incrociò per un momento, poi lo vidi avvicinarsi e sedersi proprio nella poltroncina di fronte alla mia. Un po’ mi infastidì quella sua scelta, c’erano ancora numerosi posti liberi, non aveva senso condividere uno spazio quando era possibile stare comodamente soli.

Poggiò il sacchetto sul tavolo che, non essendo più soltanto il mio, liberai avvicinando il quaderno a me. Con estrema delicatezza, che poco si addiceva a quelle dita gonfie, iniziò a scartare il sacchetto e tirò fuori un muffin al cioccolato ricoperto di panna e glassa. Notai che non si limitava semplicemente a guardarlo, con  gli occhi lucidi, quasi commossi, lo contemplava, quasi fosse stato una famosa opera d’arte.

Mormorò “ mi è stato regalato dalla padrona del bar - non dissi nulla e lui continuò - forse perché era da un po’ di tempo che non ci andavo, avrà pensato che preferissi la caffetteria che hanno aperto all’angolo e voleva riconquistare un suo cliente... certo dev’essere così... perché lei non sa” .

Mi incuriosì,  ma non ci fu bisogno di chiedergli nulla perché lui si spiegò meglio “ Sono a dieta da quattro giorni, il medico è stato molto chiaro: i miei valori sono completamente sballati e se non cambio la mia alimentazione rischio grosso “.

Si era fatto un po’ triste, visibilmente preoccupato, poi mi guardò dritto negli occhi: “ vuole mangiarlo lei? ”.

“ No, grazie - risposi educatamente - ho appena fatto colazione” .

“ E cosa c’entra?” disse quasi indignato “ lei può permetterselo!”.

Con quest’ultima frase capì che non si era seduto lì per caso, mi aveva scelta: la mia magrezza gli aveva fatto pensare che avrei potuto aiutarlo. Essere giudicata esclusivamente in base al mio aspetto fisico mi infastidì, così, con un pizzico di cattiveria, risposi: “ Sì, potrei permettermelo, ma non ho fame”.

Mi pentì subito perché lui si face ancora più triste, iniziò a sudare.

“ lei non capisce, non può capirmi. So benissimo che quattro giorni possono sembrare niente, ma a me sono costati molto e se lo mangio ora mi sentirò autorizzato a farlo ancora e fallirò “.

Fissava quel dolce, ne era terribilmente attratto ma anche visibilmente spaventato e la sua angoscia mi fece sentire in qualche modo responsabile, cercai di rincuorarlo “ ascolti, se avesse voluto mangiarlo, non mi avrebbe detto nulla, e semplicemente l’avrebbe fatto. Non è successo perché lei è forte, può resistere”.

Mi fissò. 'forse l’ho convinto' pensai. Cercai di risolvere il problema definitivamente.

“ facciamo così, lo prendo io, lo metto in borsa, e le prometto che lo mangerò più tardi”, mentre lo dicevo allungai lentamente una mano ma lui, con uno scatto repentino, tirò verso di sé il sacchetto di carta sopra il quale il muffin era adagiato.

" non funziona così. Non potrei continuare il mio viaggio sapendo che lui è schiacciato dentro la sua borsa: il pensiero mi ucciderebbe “.

Ne parlava come se fosse una cosa dotata di vita e per questo meritevole di una fine dignitosa. Con gli occhi languidi, riprese a guardare il dolce, piegava e strizzava le labbra che inumidiva con la lingua come se lo stesse pregustando.

Cercai allora di distrarlo. “ non lo faccia, oggi è anche una giornata calda e il cioccolato non si addice”.

Mi guardò con occhi increduli, come se avessi detto la più grande assurdità della storia dei tempi, ma non face in tempo a rispondere perché un rumore, tanto brusco quanto veloce, lasciò entrambi senza parole. Il bambino con la maglia a righe, in piedi accanto al nostro tavolino, aveva afferrato il soffice muffin e con due soli bocconi l’aveva quasi finito.

“ Giovanni, ma che fai!”, gli urlò la madre. “ scusate tanto” lo trascinò per un braccio verso il modulo che occupava.

“ Non si preoccupi “ dissi sorridendo alla donna, poi mi voltai verso l’uomo “ almeno così la questione è risolta “, ma lui non sembrava essere felice di quell'epilogo. Forse era deluso perché, in cuor suo, aveva deciso di cedere a quella tentazione che gli era stata soffiata sotto il naso, o forse, risolto il suo problema, non aveva più nessun motivo per parlare con me. Fatto sta che, senza proferire parola, con la bocca serrata e lo sguardo serio, si alzò e andò via.

Il fischio del treno annunciò il suo arrivo in stazione: il mio viaggio era terminato e anche se non avevo scritto praticamente nulla non mi preoccupa. 'qualcosa in mente mi verrà' pensai fiduciosa.

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