Sono qui, aspetto che vengano a portarmi via, ad eliminarmi. So che sarebbe successo, ma non così presto.

Penso a quando tutto è incominciato, ero così orgoglioso, ero stato preparato con cura. Il compito chiaro: proteggere.

Una volta pronto, ero stato notato anche per la mia sobria eleganza: un unico bottone dorato, la sola concessione frivola al blu notte della livrea. Anche per questo, probabilmente, ero stato assegnato quasi subito.

Lui era una persona decisa, non poteva essere altrimenti: appena entrato aveva dato una rapida occhiata in giro poi, arrivato di fronte a dove eravamo tutti riuniti, mi aveva guardato, fissato, soppesato. Alla fine aveva annuito quasi impercettibilmente dicendo: “Questo. Va bene” e pochi minuti dopo eravamo andati via insieme.

Durante la prima settimana sono stato scarrozzato inmacchina per la città senza lavorare. Solo in un paio d’occasionisiamo andati in giro per i suoi vari impegni. Mi ha portato con luiper precauzione e, perché no, per darsi un tono: s’appoggiava distrattamente a me mentre camminava e in un’ occasione m’aveva mostrato soddisfatto ad un suo amico. Le altre volte,arrivando da qualche parte, con mia grande stizza, mi lasciava in macchina ad aspettarlo. Era illogico: la situazione non era per niente sicura, poteva precipitare da un momento all’altro e non avrei potuto proteggerlo, non ero con lui, come avrebbe dovuto essere.

Oggi pomeriggio, come a dar corpo ai miei presentimenti, le cose sono cambiate.

Autunno inoltrato. Il sole s’ostina a schioccare giallo senza riuscire a fare il suo lavoro: freddo siderale. Foglie secchearancioni saettano nell’aria come lingue di fuoco. Polvere, terra, pezzi di carta mulinano schizofrenici per le strade imitando le nuvole che di continuo s’ammassano e si sciolgono nel cielo indaco. Lui cammina deciso: la testa tenuta bassa e spinta in avanti come la prua d’un rompighiaccio, precede di poco il resto del corpo rallentato dal vento. Una mano serra il bavero del cappotto mentre l’altra mi tiene stretto, al suo fianco. Quel saldo contatto con la mano inguantata è come una ratifica del nostro sodalizio.

Sono ancora una volta sono in automobile ad attenderloma, a peggiorare le cose, lui non è solo, c’è la sua compagna che siamo appena passati a prendere. Sono molto affiatati: lo capiscoda come brillano gli occhi e ridono per un niente quando si guardano. Mi ha lasciato da un po’. Il cielo s’è scurito, è color vinaccia. Ripetuti fulmini sfregiano questa notte fuori programma poi, ad un tratto, tutto si ferma. Silenzio. Il mondo ècome paralizzato, sospeso. Per un tempo indefinito tutto è muto, in attesa. Improvvisa, una folgore chiarissima, seguita quasi subito da un tuono che schianta alcuni vetri, viola la tregua: allarmi di automobili, appartamenti e negozi partono in unacacofonia isterica. E ancora lampi, tuoni come in un duello d’artiglieria mentre rabbiosi schiaffi di pioggia sbattono sulla città: in un attimo le strade s’allagano, i canali di scolo non riescono a drenare l’acqua che trabocca anche dai tombini. Le automobili che ancora circolano, come stordite, si arrendono alla pioggia bloccandosi in mezzo alla strada. Persone corrono in ogni direzione come mosche cieche cercando un qualsiasi riparo.

Mentre succede tutto questo io sono ancora in macchina, umiliato dalla mia impotenza.

Poi, più tardi, la pioggia comincia a calare d’intensità e ilcielo a rischiarare. Primi pedoni, con andatura incerta, sporgonodagli improvvisati ripari con lo sguardo incredulo e sbalordito di sopravvissuti; questi scampati gettano sguardi dubbiosi al cielo e di compiaciuta complicità agli altri frastornati superstiti. Man mano che la pioggia dirada e i minuti passano, la gente torna più decisa per le strade e spariscono le occhiate di solidarietà:ricomincia la quotidiana ostile indifferenza.

E’ a questo punto che lui ritorna, da solo: passo saltellante per evitare le pozzanghere più grosse, cappotto tirato sulla testa per ripararsi dalla pioggia che, anche se meno fitta, continua ad inzuppare per bene quella porzione di mondo (ma perché quando piove le persone cercano di coprirsi soprattutto la testa: non è impermeabile come il resto del corpo?).

Armeggia con la serratura, spalanca la portiera imprecando e mi fa scendere dal sedile posteriore. Sarebbe meglio dire che mi tirafuori dalla macchina con uno strattone, tanto che sbatto contro il montante della portiera. Non ci faccio caso: tocca a me, in un attimo sono pronto. A passo di carica mi porta dalla sua compagna: capelli fradici, stretta in un soprabito che non le impedisce di tremare dal freddo, ci aspetta in un androne.

Quando ci vede, il volto le si illumina d’un sorriso: siamo arrivati e la mia presenza la rende felice. Mi guarda con maliziosa ammirazione e dice:

“Nuovo eh? Carino”.

Lui annuisce con malcelato orgoglio poi, un rapido cenno del capo, le indica il portone. Lei gli si aggrappa al braccio e siamotutti e tre in strada. Il tempo è nuovamente cambiato: folate di vento, come sciabolate, sorprendono da direzioni sempre diverse. In mezzo, tra loro due, cerco di svolgere al meglio il mio ruolo. Ma loro continuano a non preoccuparsi, appagati solo dallo stare insieme, protetti da me. Siamo oramai quasi arrivati all’automobile, credo d’avercela fatta,  quando  accade l’irreparabile.

Una raffica, più lunga e violenta di vento, lo sorprendementre è sbilanciato. Lei nel tentativo di sorreggerlo lo tira per la manica; lui, d’istinto, solleva il braccio e, in un attimo, tutto èfinito. Vengo teso fino allo spasimo. Tento di resistere: ogni mia fibra è sollecitata oltre il limite. Non mi do per vinto. Ma ecco che un’articolazione cede. Prima una, quasi subito seguita da unaseconda, poi altre due stecche sono rovesciate: la cucitura di un’estremità, ulteriormente tesa dall’asta piegata, si stacca, solo di poco, ma abbastanza da offrire al vento il modo di fare presa e strappare il tessuto lungo le due bacchette spaccate.

“Ooh, che peccato…” dice lei in tono mortificato mentre le vieneaperta la portiera della macchina “… mi dispiace”.

Lui mi guarda inclinando la testa da un lato “Già… era nuovo” dice in tono sconsolato mentre l’aiuta a risalire in automobile. Poi con una scrollata di spalle le sorride “Beh, meno male che siamo riusciti ad arrivare all’auto. No tesoro?”

Mi dà un’ultima occhiata, rigirandomi per il manico da un lato e dall’altro; mi richiude in un qualche modo con le stecche deformi che stracciano altre parti di tessuto e mi lascia in questo cestino per rifiuti.

Ora sono qui, in attesa che vengano a portarmi via, ad eliminarmi: a che serve un ombrello rotto?

 



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