Dopo una giornata in ufficio, avevo proprio voglia di fare due passi.  Camminavo senza meta, con lo sguardo basso e le mani in tasca.

— Ninuzzo! Uè, Ninuzzo!

Mi volto. Un uomo sulla cinquantina si avvicina con passo deciso. Ha un completo bianco un po’ appariscente, camicia nera sbottonata fino al petto, catena d’oro spessa che gli pende sul torace villoso. Capelli scuri, tirati all’indietro con la brillantina. Sorriso largo, sicuro. Sembra appena uscito da una balera di liscio romagnolo.

— Ninuzzo! Ma sei proprio tu? Ma guarda che combinazione. Che sorpresa.

Non mi sentivo chiamare Ninuzzo da una vita. Capisco subito che deve essere un mio paesano.
Annuisco per riflesso, ma dentro di me è il vuoto.

— Ma come... non mi riconosci? E so’ io! Pasqualino... Pasqualino Stramaglia.

— Ah... Pasqualino. Come no...

Ride e mi dà una pacca sulla spalla. Io accenno un sorriso, cercando di mettere a fuoco.

— Sei cambiato, eh! Che ci vuoi fare. Gli anni passano per tutti. Però gli occhi sono sempre gli stessi. Quello sguardo da matador... eh... mannaggia a te.

— Eh già... — dico, provando a restare sul vago.

— Ma dimmi, che fai? Sei sposato? Hai figli?

— Sì! Ho due figli: uno di diciotto e una femmina di quindici.

— Ma bravo... e chi l’avrebbe detto... dopo quella sbandata per Elena. Te la ricordi?

— E come non la ricordo.

Elena era stato il mio primo amore. Otto anni insieme, poi un bel giorno, poco prima del matrimonio, mi ha mollato. Dice che s’era innamorata di un altro.

— Certo che eri distrutto. Ma per fortuna adesso stai bene. Sono contento.

— Sì. Non mi posso lamentare.

— Ascolta, Ninu’. È quasi ora di cena. Se me lo permetti, ti offro una pizza. Così ci facciamo una bella rimpatriata. Offro io... mi farebbe piacere.

Non ne ho alcuna voglia, ma rifiutare quel tono gentile mi sembra eccessivo. Accetto.

Dopo qualche minuto ci troviamo nella pizzeria A Pummarola. L’aria sa di forno a legna e di fritto rimasto appiccicato ai muri. Trecce d’aglio penzolano dappertutto: sopra il bancone, lungo le pareti, vicino al bagno. Come se dovessero tenere lontano i vampiri.

— Allora... — dice Pasqualino — io mi prendo una bella capricciosa. E tu? Aspè, mo’ te lo dico io... una pizza al salamino piccante.

Rimango stupito. È proprio la pizza che preferisco.

— Ma come fai a saperlo?

— Eh no... e così mi offendi. Ma come... siamo stati amici tanti anni, siamo andati centinaia di volte in pizzeria e vuoi che non mi ricordo che tu mangiavi solo quella?

— Hai davvero una memoria di ferro.

— Madonna, Ninu’... ma quanti anni sono passati? Venticinque almeno. Dopo che è morta tua madre, hai venduto tutto e non ti sei fatto più vedere. Sparito.

— Hai ragione. Però avevo sofferto troppo e dovevo andarmene.

— Ma lo so... ti capisco perfettamente. Prima tuo padre. Poi Elena e infine tua madre. Però mi è dispiaciuto. Il mio grande amico Ninuzzo... non vederti più... ci sono rimasto talmente male.

Per un momento sembra rattristato, poi si riprende col solito sorriso.

— Ma lasciamo perdere i discorsi tristi. Adesso ti racconto una cosa. Te la ricordi Filomena la Cionca?

— Come no? Lei, se non sbaglio, oltre al braccio offeso aveva pure una certa stazza.

— Proprio lei. Si è sposata con Giggino il Rachitico.

– No...

— Ué Ninu’... una scena che non ti dico. Lui quanto uno scricciolo, lei che da sola ingombra un letto a due piazze. Però guarda... si vogliono un bene, ma un bene. Lei lo prende sotto braccio — quello buono — e se lo porta dietro tutta orgogliosa. E lui la segue facendo mille smancerie, come un cagnolino affettuoso.

— Incredibile. Però sono contento per Filomena. Me la ricordo come una ragazza buona e gentile.

Ridiamo. Poi lui riprende, come se stesse sfogliando un album. A un certo punto si fa più serio.

— Te lo ricordi Tonino... Tonino Zaccaria?

— Certo. Era uno della compagnia. Sempre a scherzare, ma con la testa sulle spalle.

Scuote piano la testa.

— È impazzito, completamente.

Lo guardo stupito.

— Ma che stai dicendo. Era un ragazzo così bravo, intelligente. A scuola era il primo della classe. Sempre educato, rispettoso. Ma che gli è successo?

— Eh... è successo anni fa. Forse subito dopo che te ne sei andato. Pare che Tonino fosse... insomma... dell’altra sponda.

Lo dice abbassando un po’ la voce, come se quelli accanto, impegnati come erano a cantare Nino D’Angelo, potessero farci caso.

— E la cosa si è scoperta. Nessuno sa bene come, ma si è sparsa la voce. E da lì è finita.

Fa una pausa.

— È diventato lo zimbello di tutti. Lo prendevano in giro pure i bambini. Il padre gliene diceva di tutti i colori.

Mi passo una mano sulla faccia. Non so che dire.

— Il poveretto non ha resistito. Alla fine l’hanno portato in una struttura dove l’hanno imbottito di psicofarmaci. Poi è tornato a casa. Adesso vive come un’ombra. Non parla quasi più, non si muove, non guarda nessuno.

Si ferma, abbassa gli occhi.

— Povero Tonino. Quanto mi è dispiaciuto. Ma erano altri tempi, Ninu’. Se fosse successo oggi, porca miseria, nessuno gli avrebbe dato peso.

Pasqualino parla, e ogni nome che pronuncia smuove qualcosa. Ricordi sepolti, legami dimenticati. Avevo chiuso tutto in fretta, per non sentire più dolore. Ma così ho cancellato anche ciò che valeva: le risate, gli amici, la vita vera. È come se lui parlasse apposta per farmi rientrare in quel passato che nessuno ha il diritto di cancellare. E per la prima volta da anni, sento il bisogno di tornare. Anche solo per guardare da lontano quello che resta. Per dire che c’ero anch’io, prima di sparire.

Alla fine ci alziamo. Pasqualino mi stringe forte, con affetto sincero.

— Mi raccomando, Ninu’. Vieni a trovarci. Non sparire un’altra volta.

Annuisco.

— Promesso.

Cammino piano verso casa. Ho passato una bellissima serata. Strana, improvvisa, ma bella. Un vortice di ricordi mi ha assalito, e adesso mi sento più leggero, quasi riconciliato con qualcosa che avevo lasciato a metà.

Eppure c’è una domanda che continua a girarmi in testa. Una sola.

Ma chi cazzo è ’sto qua? Proprio non mi viene in mente.

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