La pioggia scendeva fitta dal cielo grigio e l’umidità che saliva dal terreno rendeva l’aria fredda. Nello stretto vicolo ciottolato Poldo stava rannicchiato e guardava tristemente i passanti camminare.

Molti lo ignoravano, qualcuno si soffermava per dire un “ciao”, altri ancora fuggivano veloci da lui.

Poldo aveva otto anni, era un meticcio nero con occhi dolcissimi e nel suo passato aveva vissuto tempi migliori ma anche peggiori. Suo padre era un labrador di pura razza, fuggito per breve tempo dal padrone a causa di un amore impossibile per Lola, la meticcia del canile. Lola restò al canile e dopo qualche tempo mise al mondo i suoi cuccioli. Fra tutti i nove figli di Lola, Poldo era sicuramente il più bello e al canile decisero di risparmiargli la vita, cosa che non accadde ai suoi otto fratelli.

Dopo qualche mese arrivò una bella famiglia e Poldo scodinzolante dimostrò tutta la sua gioia e il suo entusiasmo.

“È bellissimo!”, disse la bimba ai genitori.

“Diventerà troppo grande.”, rispose la mamma.

“Vi prego, prendiamo lui!”, supplicò ancora la bambina.

Fu così che Poldo venne fatto salire sull’auto e portato via da Lola che, da dietro alle sbarre, mugolava di dolore, consapevole però che il suo cucciolo avrebbe avuto una vita migliore della sua.

Poldo ben presto dimenticò il freddo e sterile canile, adattandosi alle comodità della nuova dimora. Cibo in abbondanza, cuccia comoda, giochi e lunghe passeggiate.

Una sera l’atmosfera in famiglia era cupa e Poldo, dalla sua cuccia, osservava immobile quelle persone che tanto amava. I suoi occhi scrutavano ora uno ora l’altra a seconda di chi in quel momento interveniva. Carlotta, la bimba, già dormiva.

“Non se ne parla proprio, il posto dove andremo a vivere non può ospitare un cane così grosso.”, diceva la mamma.

“Cara, ma Poldo fa parte della famiglia, come possiamo abbandonarlo?”, rispondeva il babbo.

“Lo porteremo in campagna dallo zio.”

“Questa potrebbe essere una buona idea, ma non pensi che Carlotta potrebbe soffrire?”

“Oh, le prenderemo un gatto”, concluse la mamma.

In una bella giornata di primavera Poldo salì in auto felice, pensando di andare a fare una bella gita come al solito. Quando arrivarono alla cascina venne liberato e iniziò a correre di qua e di là abbaiando per la gioia; poi la famiglia risalì in macchina senza chiamarlo. Poldo si bloccò. Che cosa stava accadendo? Lo zio lo trattenne per il collare e lo legò alla catena.

“Zitto cagnaccio!”, urlò

Poldo abbaiò con quanto fiato aveva in gola ma nessuno tornò a riprenderlo, mai più.

Niente più cuccia calda e cibo delizioso, niente più giochi e passeggiate, solo una sporca casetta in cortile e una zuppa brodosa al giorno.

La catena a cui era legato lo strozzava ogni volta che Poldo aveva voglia di correre un po’ e il suo stomaco languiva per la fame. Sporco, triste e solo, Poldo si domandava ogni giorno dove fosse la sua bella famiglia, a volte sognava la casa in cui aveva trascorso ore felici e in quei sogni leccava mani che lo accarezzavano e scodinzolava di gioia. A farlo tornare alla realtà bastava un calcio ben assestato dello zio: “Fai la guardia! Fannullone buono a nulla”.

Ogni giorno Poldo diventava più triste e iniziò a rifiutare anche quell’unico orribile pasto che gli veniva offerto.

“Bisogna sopprimerlo.”, gridò lo zio al veterinario.

Il dottore si avvicinò a Poldo che, per la prima volta in vita sua, ringhiò contro un essere umano.

“Lo vede? È cattivo e pericoloso e poi dorme sempre, non mi è di alcuna utilità”.

“Domattina verrò a fare una bella iniezione”, si affrettò a dire il veterinario e se ne andò.

Quella notte Poldo soffrì il freddo più freddo che avesse mai sentito. Nei suoi occhi velati di lacrime passarono immagini di uomini che lo deridevano, lo bastonavano insultandolo, poi a un tratto, fra tutti, gli apparve il viso della dolce Carlotta e Poldo smise di tremare. 

Iniziò a tirare forte, la catena al collo lo soffocava, ma lui non smise di provare. Provò fino a quando il suo collo si ferì. A un tratto il collare di cuoio cedette e Poldo si ritrovò libero nei campi. Corse senza domandarsi dove stesse andando.

Corse il più lontano possibile da quel posto orribile. Corse verso il viso di Carlotta. Non la trovò mai. La sua cara padroncina era smarrita e Poldo con lei.

Dopo tanto vagare giunse in città e vagabondò per le vie, stanco e affamato. Qualche anima pietosa gli offriva una ciotola di pasta che lui divorava avidamente per poi ritornare nella sua solitudine.

Nessuna carezza mai, le persone avevano timore di un cane randagio. Quante malattie può portare? I cani randagi sono cattivi. Molte volte Poldo lo aveva sentito dire. 

Cattivi? L’uomo è cattivo. L’uomo che abbandona, che ferisce, che massacra, che uccide…

Povero Poldo. Non capiva. Sarebbe stato forse meglio dentro al canile? Là era la sua mamma. Ne sentì le affettuose e amorevoli leccate. Dov’era Lola? Dov’era Carlotta? Tutti spariti e Poldo non riusciva ancora a capire il perché.

Il suo posto era ormai in quel vicolo ciottolato, gli bastava guardare fra la gente e poter scoprire ancora un volto amico, una carezza gentile che raramente arrivava.

In fondo al suo cuore sapeva che gli esseri umani non erano cattivi, qualcuno ci aveva anche provato a prenderlo a casa ma ormai la ferita per quell’abbandono aveva lasciato una cicatrice troppo profonda. Preferiva non essere più amato e non dover più amare.

Nel suo cuore dimorava da sempre Carlotta, ne sentiva le risate, la voce di bimba, la mano che gli arruffava il pelo; nessuno più sarebbe riuscito a prendere il posto della sua padroncina.

L’inverno successivo il gelo inghiottì il vicolo ciottolato e Poldo, raggomitolato nel suo angolo, sembrava sorridere. Gli era sembrato, tra la folla di passaggio, di vedere il viso della bambina. Si era alzato a fatica sulle zampe anteriori e aveva chiamato. Quella bambina si era avvicinata. Avvolta in un cappotto rosso aveva fatto una corsa verso Poldo.

“Bello. Sei il mio bellissimo cane!”, aveva detto accarezzandolo. Lo aveva abbracciato forte continuando a

passargli la mano guantata sulla testa. Una grattatina sotto al muso. Quanto tempo era passato dall’ultima grattatina? Neppure se lo ricordava più. Non aveva però dimenticato la sensazione di meravigliosa beatitudine che si provava.

“Martina lascia stare quel cane”, disse una voce.

“È tanto, tanto bello mamma”.

“È pur sempre un randagio e poi è già adulto. Sai cosa faremo? Gli porteremo cibo tutti i giorni, diventerà il nostro cane”.

Martina sorrise e saltellò regalando l’ultima carezza a Poldo.

Quella notte tra il gelo della terra e il buio del cielo, Poldo sorrideva. D’improvviso non sentì più freddo, fame o tristezza. 

Poldo sorrideva. Sorrideva a una nuova vita.

Il mattino seguente i netturbini lo chiusero nel sacco, ma prima di farlo notarono qualcosa di incredibile: “Ehi, guarda un po’… ma questo cane sorride”.

“È vero. Guarda che espressione beata. Chissà quale sarà stata l’ultima cosa che avrà visto”.

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