Io sono nato in un piccolo borgo della bassa bresciana, in una vecchia cascina circondata da campi di grano e prati fioriti, incorniciati da una rete di canali di irrigazione e fossati di acqua incontaminata, dove insetti pattinatori ed eterotteri scivolavano danzanti sulla superficie. La felicità di tuffarcisi dentro era massima e, per noi bambini nati lontani dal mare, quell’occasione rappresentava uno dei momenti più esilaranti dell’anno, quando la calura estiva esaltava la sete e il bisogno di freschezza.
Quelle acque brulicavano miracolosamente di vita e di diversità. Con un semplice retino o una forchetta era facile catturare pesci, anguille, gamberi e rane. Un'altra tecnica consisteva nel prosciugare un tratto del fossato con una pala concava di legno, dopo averlo da ambo i lati ostruito con due semplici dighe di fango, che impedissero (per il tempo necessario all’operazione), l’impercettibile scorrere dell’acqua. Così i pesci, intrappolati nella poca acqua sul fondo, erano di facile presa.
Questa, era la “regola” che governava quel magico mondo passato, mentre più a nord (una ventina di km) l’eccezione si materializzava in una conceria, che cominciava riversava i suoi primi veleni e reflussi acidi nel fiume Mella.
Tutto intorno a noi c’erano prati, vigne, fossati d’acqua pura, cascine, stalle, galline, maiali, mucche e cani e gatti e tortore e gabbie di uccellini, bachi da seta e gelsi, noci e castagni, peschi e ciliegi e i vari profumi si mescolavano nell’aria immacolata inebriando i nostri cuori, alimentando sogni e desideri, per poi cullarci esausti fra le piume d’oca di un guanciale, avvolti dal tepore di un braciere.
E poi arrivarono le fabbriche e niente fu più come prima. Rumori di ferraglia, di magli e di catene profanarono quel silenzio perfetto e tutti avevano qualcosa da dire… tutti avevano qualcosa da dire... tutti avevano sempre qualcosa da dire.
Così, un chiacchierio assordante avvolse il mio piccolo paese per sempre.
Il Nulla avanzava divorando e fagocitando ogni cosa! Il mio infinito prato di viole scomparve sotto un grande centro commerciale e così il fossato e la fattoria. I canti crepuscolari delle donne furono messi a tacere per sempre, mentre la televisione, imperturbabile, dettava le sue condizioni.
Frigoriferi e lavatrici invasero le cucine e mobili di truciolato spodestarono i tavoli e le madie di castagno.
E con la TV arrivò la spazzatura e poi le scorie tossiche, i rifiuti speciali e la discarica e mentre tutti avevano sempre qualcosa da dire, la bruttezza sferrava il suo colpo finale pianificando e approvando l’idea di un grande inceneritore. Così il mio piccolo paese era sparito, devastato e stuprato dalla stupidità umana – sterminato di ogni sua bellezza e magia, trasformato in un lugubre cimitero di zombi parlanti, incapaci di amare, di pregare e di gioire.
E presto, le mani degli uomini furono incatenate alle ragioni del profitto e del potere, asservite alle logiche di una catena di montaggio – mani, umiliate dalla loro funzione primigenia e degradate ad ammennicolo, costrette a produrre orrore, rifiuti e distruzione – loro, le mani, espressione della nostra volontà, estensione dei nostri desideri, corpo e sostanza dei nostri bisogni e dei nostri sogni.
Oggi uno spettacolo agghiacciante di scempio e di bruttezza scandisce la nostra quotidianità e un’inconscia e persistente paura tradisce ogni sentimento di felicità e di amore.
Gianni Tirelli