Dicono che devi prendere un grosso respiro e tendere i polmoni al massimo come fossero tamburi, così un bel respiro ecco, bene.

Non cambia nulla, perché non cambia nulla?

Io che ormai ho totalmente rovinato i miei, magari ne faccio un paio comunque, così, perché sennò mi viene una sincope e se così non fosse mi basterebbe solo l'idea a peggiorare le cose.

Calmi, stiamo tutti calmi qua dentro.

Ma quanti cazzo siamo in questa testa a galleggiare nelle feci maleodoranti dell'angoscia?

Ne conto una dozzina solo alzando un attimo la testa dalla superficie liquamosa.

Mi sembra un girone infernale, tutti immersi in quest’acqua bollente e putrida.

Siamo tutti incurabilmente pazzi. Parliamo di noi al plurale, ma è una moltitudine vuota. Uccidine uno, e ci uccidi tutti. No, so cosa stai pensando. Lo so, lo leggo chiaramente sulla tua fronte. Non la chiamerei dissociazione di personalità, non abbiamo nessun trauma qua. Capito? No, così, per essere chiari fin da subito.

Niente psicanalisi, ci dà la nausea. Troppa psicanalisi, troppo rimestio nel calderone, troppo vapore. Vorremmo della carne cruda. No! Non la vogliamo, non la vogliamo! Non so come si chiamino gli altri, non parlano quando sono sveglio. So che ci sono e basta. E basta ho detto. Smettila di parlare, non mi chiedere nulla! Zitto, ecco. Silenzio. Solo lo sciabordio della risacca e questi lamenti.

Lo chiami silenzio? E’ il mio silenzio. No. Il nostro modo di ascoltarlo. Senza non saprei come fare. Nessuno di noi lo saprebbe. La certezza del dolore è la nostra unica via d’uscita. E non ce la toglierete, oh no! Ci siamo solo noi e il nostro silenzio, in balia del Tempo.

Chissà da quanto siamo quaggiù. Io non lo so. Non ho mai provato a controllare il Tempo, io non sono pazzo. Io sono quello normale. Normale. Ne conosco altri, li sento chiaramente nei miei sogni, mentre allargano la loro mente abbracciando il nostro corpo.

Ci diamo il cambio, in modo da poter riposare. Questa recita ci stanca, siamo esausti. Torniamo a “casa” con la repulsione per i nostri stessi rantoli, in cerca d’aria, a volte soddisfatti della riuscita dello spettacolo, a volte no.

Devi essere bravo ad improvvisare, a calarti nella parte che richiedono le regole del gioco. Devi dirigere gli attori con cura, studiare una strategia che ti permetta di fuggire senza essere visto, nell’ombra di una battuta plausibile. Lo scopo del gioco è non farsi sgamare. Mai. Se perdi, sei da capo.

Cosa dici? Odi questo gioco? Non abbiamo chiesto la tua opinione. Non ce ne frega nulla di quello che pensi tu, tu sei una parte del tutto e non hai il diritto di esprimere la tua opinione. Sei una pedina in una scacchiera, non ci importa se cerchi di lamentare delle mancanze. Le regole sono regole. Ah sì? Nessuno ti ha chiesto di giocare. Non hai capito nulla. Tu non sei nessuno. Tu sei una funzione di una x in un’equazione banale. Sei invisibile. E ora, ti prego, smettila di parlare. Non è il momento della dissidenza, non lo è mai per i codardi.

Uno di loro sa suonare la chitarra, lo sento sfondare la cartapesta dei miei incubi bianchi con le sue note colorate. Non abbiamo mai avuto una conversazione vera e propria, temo non sappia parlare il nostro linguaggio. I suoi stati d’animo inzuppano di pallini neri le pareti della sua gabbia, sciogliendo nell’aria aromi più o meno intensi, più o meno candidi. Spesso canta del viola e di come lo abbia privato della libertà lasciandogli la chiave in tasca. E la paura, la paura di usarla.

Un altro dice che, una volta uscito da qui, vuole girare il mondo. Frank. Mi ha riempito la testa di aneddoti nello stesso modo in cui riempie i suoi vuoti. Il peso delle sue informazioni gli ha mozzato la testa; ora gira tenendola sotto il braccio e si vanta della tua prospettiva a 360 gradi. Lo trovo bizzarro. Una compagnia piacevole, finché non ti racconta delle cascate del Niagara. O non abusa di alcool. A quel punto infatti se ne va a dormire, e subentra lui, quello disinibito.

Quello disinibito va bene quando la situazione degrada. Più i suoi enormi e pesanti bracciali si sfilano e cadono a terra con un rimbombo cupo, più le sue parole si fanno poco attente, poco curate. I suoi discorsi sono privi di logica e turbano il pubblico. A quel punto la vergogna lo rivolta, e anche lui torna a dormire.

Una volta ho sognato di buttarmi dalla cima delle cascate del Niagara, e poi tutto zuppo e incazzato nero mi sono svegliato in una pozza di piscio.

Perché toccava proprio a me sistemare quel casino? Perché non ci poteva pensare quello disinibito? In fondo il casino l’ha fatto lui, quel bastardo. Io cosa diavolo c’entro? Cristo, quello disinibito la mattina dopo è come il sale sui tagli profondi. Il ragazzo del pozzo. Lo sento piangere nel fondo del suo tunnel nero, immerso nell’acqua fino alla cintola, mescolando le sue lacrime all’acqua di palude. Sanguisughe gli strisciano sulle guance incavate, succhiando quello che resta della sua pelle ormai di vetro. Non sono sadico, no quello raramente si fa vedere, è che non posso fare a meno di ascoltare tutti quei pensieri orribili e disperanti. E’ come se parlasse in un megafono e me lo puntasse nelle orecchie. Impossibile non sentire. L’ultima volta ho rifiutato di farlo andare in scena; gridava che non se ne sarebbe mai andato via da questo buco di culo del diavolo, vivo. Già.

Qui sotto puzza di merda. Non si respira. E io cerco di tenermi l'aria putrida nei maledetti polmoni perché lo strizzacervelli dice che l'ansia se ne andrà prima o poi. Ma la verità è che nessuno se ne va da questo buco. Nessuno di noi, men che meno il ragazzo del pozzo. Resta tutto incastrato a violentarci l’anima.

Un giorno ho sognato di essere bloccato in una caverna molliccia. Le pareti mi bruciavano la pelle, le mie braccia erano un grumo sanguinolento. Così ho iniziato a grattarne i fianchi con rabbia, scavavo con le unghie senza curarmi del fatto che le dita si scioglievano al contatto con quelle pareti dalla consistenza fibrosa. Non feci caso ai moncherini che una volta erano le mie mani, volevo solo uscire da quell’inferno. Strinsi le labbra e continuai ad aprirmi un varco in quella giungla di esalazioni acide. Ad un certo punto la caverna si squarciò quel tanto che bastava ad infilare la testa fuori. Da sopra una voce scherzosa e familiare colmò il mio cuore di orrore:"Ma tu guarda, mi escono i vermi dalla pancia.” Il sadico. E’ uscito dal suo ossario. Impungna il coltello con una smorfia folle e sghignazzando lo abbassa con un guizzo violento nella mia direzione, spingendo la lama nella nostra carne fino all’impugnatura. L’ultima cosa che percepii fu la selvaggia gioia del ragazzo del pozzo. Così forte e destabilizzante che mi riempì del tutto per l’ultima, spettacolare volta. Credo di aver pensato: “Ne è valsa la pena”.

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