Ho cominciato a perdere anni presto, molto presto.
I miei coetanei avevano ancora tutti i loro anni, folti, fitti, scuri, densi. Io invece, da che ero come loro, iniziai – ricordo era un sabato mattina – a trovarmeli nel letto, sul cuscino, per terra, davanti allo specchio del lavandino. Erano anni che credevo potessi non perdere mai: sono sempre stato fiero dei miei anni. 
Da quel giorno è stata una caduta verticale, inarrestabile, ma non costante: a volte ne perdevo a manciate, altre pareva resistessero, attaccati al mio presente. 
Ho perso il ’94, tutto di colpo. Dell’88 e dell’89 si intravede ancora qualche segno, un piccolo bulbo, come un foro arrossato. Dietro questi il vuoto, liscio levigato lucido.    
Altri li ho persi per strada, alcuni guidando, spesso lavorando, quasi sempre aspettando. 
Uno pensa che a lui non succeda: vedi tutti quegli sconosciuti senza manco più un anno e dici “io non sarò mai come loro, io ci tengo ai miei anni, li curo, ci sto dietro” e invece succede. Non puoi farci niente.       
La mia compagna – che i suoi anni li ha quasi tutti (per le donne è diverso) e, di quelli che non ha più, non se ne cura, pace, amen, che importa? – nutre nei miei confronti, nei confronti di questa mia debolezza, una premura che mi conforta e mi umilia. 
Non posso fare a meno di pensare che riesca a soprassedere a questa mia grave mancanza semplicemente perché non mi ha conosciuto prima, quando gli anni li avevo tutti. 
Col tempo uno un po’ si abitua: lo facciamo per sopravvivere, come con le meschinità che non ci abbandonano.        
Ma stasera, rientrando a casa – l’aria così pesante, il buio opprimente – in ascensore, fissando i piedi, per terra, per la prima volta ho visto un anno perso, ma del futuro.

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