Ero stato trasferito a Ferrara per sostituire un collega che era stato deportato in Germania per le sue origini ebraiche. 

Eravamo nel giugno del 1944 e la guerra ormai stava avviandosi verso la fine. Gli alleati avanzavano su più fronti e i tedeschi si ritiravano verso nord, resistendo palmo a palmo e lasciandosi dietro una lunga scia di sangue.

I partigiani, da parte loro, contribuivano con azioni di disturbo a rendere difficoltosa la loro ritirata. Tutta la zona del delta fra le province di Ferrara e Rovigo era territorio dei partigiani, quella fitta rete di canali, di gore e pioppeti era un posto eccellente per nascondere un numero infinito di uomini armati.

I tedeschi tenevano sotto stretto controllo gli unici due ponti esistenti fra queste due province, il movimento di mezzi e di uomini era controllato minuziosamente dai militari ai lati dei varchi.

La prima volta che la vidi era una mattina di sole, una di quelle rare giornate limpide che anche la Bassa era capace di offrire. La vidi che veniva avanti dalla parte di Rovigo. Era una ragazzetta esile, magra, con le gambe ossute, una cascata di capelli rossi, tenuta a freno da un fazzoletto colorato. Veniva verso la mia parte del fiume su una sgangherata bicicletta che ad ogni pedalata miagolava come un gatto in calore. Si fermò all’alt della sentinella, mise i piedi a terra e potei osservarla meglio, era in pratica a poco più di cinquanta metri dalla mia finestra. Piccola di statura, aveva il viso chiaro con molte lentiggini, tipiche di quelle con i capelli rossi.

Quello che mi colpì furono i suoi occhi, due grandi occhi di cerbiatta, scuri e sgranati quando il soldato tedesco la fece scendere dalla bici per controllare i documenti. Sorrideva con aria canzonatoria verso il militare che, impassibile, studiava le carte che aveva in mano. Non trovando niente di anormale le diede il permesso di continuare.

Con calma la ragazza si rimise in sella e partì lentamente. La bici era pesante e vecchia, vedevo il suo sforzo per dare l’abbrivio a quel catorcio. Sparì dalla visuale e io tornai alle mie faccende.

Il mio lavoro a scuola finiva verso le quattordici. Tornato a casa, non avevo molto da fare, impiegavo il tempo correggendo compiti, studiando le lezioni per il giorno dopo e preparando la cena. Quel pomeriggio ero preda di una strana apatia, la giornata era stata bella e anche la sera si preannunciava buona. Giungevano dalle acque del fiume rumori delle rare auto in transito e gli scampanellii delle biciclette dei lavoratori che ritornavano a casa.

Ad un tratto udii uno strano cigolio, un rumore che mi risultò familiare. Mi sovvenne che lo avevo già sentito la mattina, corsi alla finestra sperando di riuscire a vedere la proprietaria di quella bicicletta dal rumore particolare. Fui fortunato, lei era lì ferma davanti al soldato che le controllava i documenti.

Con le ombre del crepuscolo non potei vedere l’espressione del suo viso, ma avevo ben chiaro nella mente quello che avevo visto al mattino, mi accorsi solo che la curva delle spalle era più bassa rispetto alla mattina, segno che doveva essere molto stanca.

Dopo i controlli riprese con la solita difficoltà la sua strada, pedalando con le sue ginocchia aguzze che sporgevano dalla corta gonna a quadroni. Notai che aveva cambiato fazzoletto in testa.

Da quel giorno l’appuntamento con la ragazza sconosciuta divenne quotidiano. Avevo memorizzato in suoi orari e mi facevo trovare affacciato alla finestra per poterla vedere. Non era una bellezza tale da far girare la testa, ma era l’immagine della gioventù, della spensieratezza.

Il suo volto, quando sorrideva, s’illuminava di una strana luce interiore, gli occhi brillavano. Poteva avere un’età fra i diciotto, venti anni.

La guerra e le atrocità dei soldati tedeschi, sembrava che non esistessero, lei sorrideva al mondo e alla vita, era viva e faceva sentire vivo anche me. Dal sorriso capivo il suo stato d’animo, non sempre era di buon umore, spesso le sue labbra esili si contraevano come in un tic dovuto ad una forte tensione interna.

Fui tentato più volte di avere un approccio, ma la mia posizione e l'età mi creavano molti scrupoli, non avevo un motivo valido per parlare a quella ragazza, io un modesto insegnante di scuola elementare, con i capelli grigi.

Feci vari tentativi per avere informazioni sul suo conto, ma dopo una settimana, non ero riuscito a sapere niente.

Appena accennavo alla ragazza c'erano sguardi torvi e silenzi prolungati, e così non insistevo:  evidentemente la gente la conosceva bene, ma riteneva non opportuno parlare dei fatti suoi ad uno sconosciuto come me. I tempi non erano favorevoli per delle indiscrezioni.

I suoi movimenti erano precisi e anche le sentinelle ormai la conoscevano, quando arrivava bastava un saluto, uno sventolare del lasciapassare con firma del podestà.

La cosa andò avanti per più di due mesi.

Eravamo in agosto, i tedeschi erano arrivati al Po e si accingevano ad oltrepassarlo per ritirarsi verso la pianura lombarda. Ci fu un avvicendamento di truppe, i controlli si fecero più intensi, l’esercito tedesco sentiva il fiato degli alleati sul collo e si dimenava come un serpente al quale avevano tagliato la coda.

Ai ponti, al posto delle solite sentinelle, furono messi drappelli dei corpi speciali.

Ero in pensiero per quella ragazza, la situazione era cambiata e in peggio. I partigiani negli ultimi giorni avevano intensificato gli attacchi alle truppe in ritirata e le ritorsioni tedesche non si erano fatte attendere, le fucilazioni di ostaggi civili si susseguivano a ritmo serrato, gli ultimi spasmi di una guerra che stava per finire.

Quella mattina come sempre alla stessa ora la vidi venire avanti sul ponte con fatica. C’era un forte vento che spazzava la strada e lei faticava come non mai a pedalare sulla sua sgangherata bicicletta.

Arrivò davanti ai soldati e, come ormai era abituata, fece un cenno di saluto con la mano continuando a pedalare, non se la sentiva di fermarsi e poi ripartire, era troppo per le sue forze.

I soldati le fecero segno con modi bruschi di fermarsi, ma lei convinta dalla consuetudine continuò verso l'uscita del ponte che portava sulla strada sterrata lungo il fiume.

Afferrai al volo la situazione e  gridai a squarciagola dalla finestra verso di lei:" ATTENTA! "

Lei dovette sentire qualcosa e si voltò nella mia direzione, nel girarsi il fazzoletto scivolò dalla testa e una nuvola di capelli rossi si liberò nel cielo.

Mi vide e fece un cenno lieve di saluto proseguendo a pedalare. Nello stesso istante, il graduato a capo del drappello, visto che la ragazza non si era fermata, imbracciò il mitra e con una sventagliata la falciò facendola letteralmente saltare in aria.

Vidi quel corpo volteggiare nell’azzurro del cielo come una farfalla. Sospinta dal vento ricadde su uno spiazzo verde che immediatamente si tinse di rosso.

Il mio urlo di dolore si perse nel rumore degli spari. Sconvolto dall’orrore mi precipitai fuori correndo verso quel corpo abbandonato sull’erba a due metri dall’acqua.

Arrivai che ancora respirava, la presi in braccio e il sangue mi scivolò addosso. Era praticamente morta, ma volevo almeno un nome da ricordare, una morte così assurda era difficile da dimenticare, l’avrei portata nel cuore per sempre

"Come ti chiami ragazza?" chiesi con un filo di voce, tenendola stretta al petto.

Lei spalancò i suoi grandi occhi velati dalla mano invisibile della morte, e riuscì a mormorare, con l’ultimo fiato: "Agnese"

Gli occhi rimasero fissi verso il cielo che diventò grigio all’improvviso in quella mattina dell’agosto del 1944, mentre dalla parte Sud della città s’udiva il cigolio sinistro di un reparto di mezzi corazzati alleati che arrivava in città.

 

 

 

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