Lo so, lo so. Avrei potuto ignorare tutto e farmi gli affari miei. Ma c’è qualcosa nei litigi poetici, nelle minacce in privato e nei blocchi in pubblico che mi provoca un prurito comico irresistibile. E così… è uscito questo. Non offendetevi troppo. 

Oppure sì, fate pure. Tanto ormai è tardi.


Ti blocco, dunque sono - La rissa poetica in endecasillabi (ovvero: quando la poesia diventa un ring e gli autori hanno l'autostima a righine... ma proprio a righine eh!)
C'è un momento epico, un istante quasi sacro, nei salotti virtuali della poesia, in cui la musa smette di sussurrare dolcemente e inizia a sputare fiammate, manco fosse un drago con la sindrome premestruale. 
Un attimo solenne, inevitabile, come il debito pubblico. 
Succede quando qualcuno, l'impavido, l'incosciente, osa scrivere un verso troppo digeribile, un testo fin troppo condiviso, o peggio ancora, un commento che profuma di "ho ragione io e tu no".
E allora, BAM! Scatta la faida che neanche i Montecchi e i Capuleti a Verona.

Primo round: messaggi che, per essere più passivo-aggressivi, dovrebbero chiamarsi "missili teleguidati sotto mentite spoglie". 
Secondo round: minacce talmente velate che per capirle serve la Stele di Rosetta. 
Terzo round: il blocco. Sì, proprio quello. Il dito scivola sul mouse con la gravità di un gesto biblico. 
E il gran finale? O il ban teatrale, con tanto di sipario che cala e fischi dal pubblico, o la poesia sgambettata elegantemente, come se avesse studiato alla Scala di Milano.

Il tutto condito da un senso del dramma così acuto che farebbe impallidire Shakespeare, e un senso del ridicolo... beh, quello è rimasto a casa a farsi un tè alla camomilla.

Perché bloccare, oggi, non è mica solo una funzione da tap-tap: è una dichiarazione di guerra, un manifesto esistenziale. 
"Ti ho bloccato perché sono Vera, con la V maiuscola!", "Ti ho sbloccato solo per dirti quanto sei falso/a e poi ti ho ribloccato con la velocità di missile ipesonico!", "Mi hai bloccato ma poi mi hai scritto, quindi sei tu il fake, anzi la fake più fake di tutte le fake messe insieme!", 

"Non sei tu? Sei un clone? Ho le prove! Screenshot salvato e incorniciato. Addio, e non ti auguro buona fortuna!".

Nel frattempo, tra un blocco e un contro-blocco, nascono capolavori dai titoli così altisonanti che sembrano nomi di uragani: "Bugie nel web (versione deluxe)", "Verità non condivise (mai, neanche sotto tortura)", "Tempeste digitali (con fulmini e saette a forma di stelline)".
Con versi impaginati così a scalini che sembrano le piramidi maya, tipo:

 

Scivola
la menzogna
tra dita frettolose
che non sanno
quel che fanno
e io
ti vedo
anche se non ti nomino
ma tu lo sai
brutto
a antipatico
a!

 

E tutto questo, udite udite, perché qualcuno ha osato mettere un innocente "mi piace" a qualcun altro.
Una catastrofe!

E così, mentre si litiga sotto un finto testo sull'onestà (che onesto non è), mentre si finge profondità da abissi oceanici solo per regolare conti tra poetesse agguerrite (e qualche poeta, non facciamo i sessisti), la poesia - quella vera, quella che non puzza di vendetta ricamata a punto croce, quella che non si scrive per un dispetto tra profili con nomi da pietre preziose (ma taroccate) - quella poesia lì, poveretta, viene strangolata nel backstage, tra un cavo e l'altro, senza neanche un'ambulanza.

E intanto, nel pubblico, c'è chi osserva, legge e si chiede: "Ma davvero si minacciano in privato per un endecasillabo mal interpretato? 
Ma siete seri?".

MIU, no. 

MIU osserva, ride (e pure di gusto, s'è detto), e prende nota. 
Perché quando la guerra si combatte a colpi di versi, ma il nemico è solo un ego ferito e grande quanto l'Empire State Building... beh, allora ci vuole la satira. 
E pure un buon tè. 

Rigorosamente con veleno. 
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