Ricordo ancora quando accadde la prima volta, e come quel personaggio, o meglio, tutta quella mentalità, entrò nella mia vita. Era un pomeriggio come tanti altri e non avevo voglia di fare i compiti. Fuori il cielo era grigio; non avevo voglia di uscire e accesi la TV.

Erano le 18, evidentemente, perché quello era l’orario in cui andava in onda quel telefilm. Rimasi subito attratto dalla colonna sonora iniziale: aveva delle nuances, delle onde musicali strane ma seducenti, completamente diverse dallo stile musicale in voga nel 1986 — un tempo che oggi potrebbe sembrare preistorico nella storia della televisione.

Era il periodo dell’esplosione delle cosiddette “TV libere”, cioè Canale 5, Italia 1 e Rete 4: erano nate da poco e trasmettevano programmi che la RAI generalista non avrebbe mai mandato in onda, come quello che stavo guardando in quel momento.

Sullo schermo si vedeva un cielo pieno di stelle — ma non era il cielo che vedevo di notte dalla mia finestra. Sembrava simile e al tempo stesso diverso: c’erano le stelle, certo, ma anche ammassi globulari, zone più dense di luce all’orizzonte.

Poi, all’improvviso, apparve in scena un oggetto: una sorta di disco volante, collegato a un lungo gambo che terminava in un cilindro bombato, costellato di feritoie illuminate. Era l’astronave Enterprise.

E quella musica… così coinvolgente! Capii subito che apparteneva a un’altra epoca: aveva un ritmo e un’andatura che non erano di quel tempo. Poi scoprii che la serie era stata ideata negli anni Sessanta, e che in Italia era arrivata solo all’inizio degli anni Ottanta.

Ciò che mi attirò subito fu la musica — così seducente, così carica di promesse d’avventura.

Ma ben presto non fu più solo la musica a incantarmi. Era il mio attore preferito, ma era anche molto di più di un attore: era il mio ideale. A quattordici anni volevo essere come lui. Mi muovevo e parlavo come William Shatner. Per me la serie TV, o meglio, il telefilm — perché negli anni Ottanta quello era il termine comune — era semplicemente il telefilm. Andava in onda tutti i giorni alle 18, se ricordo bene, su Italia 1.

Del resto, era così quando un ragazzo poco più che adolescente sceglieva di eleggere un eroe come proprio ideale, più del cuore che dell’intelletto.

Nutrivo per quel personaggio che vedevo ogni giorno nella serie di fantascienza un affetto profondo, quasi fosse una persona in carne e ossa, più reale persino di chi mi stava accanto, i miei familiari e i miei amici.

Avevo fatto mia la mimica stessa del Capitano Kirk, che nella mia mente era la persona reale che ammiravo. Non mi passava neppure per la testa che fosse un attore a impersonare un ruolo; per me era il Capitano Kirk, in tutto e per tutto. Non esistevano attori o finzioni; non avevo ancora sviluppato quel concetto, anche se ormai dovevo essere abbastanza grande da saper distinguere la maschera dalla realtà.

Avevo assunto su di me la persona, o almeno l’immagine, del Capitano Kirk. L’avevo fatta mia come un alter ego da imitare in tutto. Quando parlavo con i miei amici, assumevo quella posa sicura di sé che il Capitano Kirk aveva quando, dalla plancia della sua astronave, impartiva ordini al suo equipaggio. Mi raddrizzavo con la schiena dritta ed esprimevo le mie opinioni con la stessa sicurezza.

Cercavo perfino di imitare la sua voce e la sua tonalità: quella voce ferma e sicura che, insieme alla postura plastica, comunicava un carisma irresistibile.

Gli amici con cui mi ritrovavo nel pomeriggio dopo la scuola — Luca e Giorgio — all’inizio erano felici di giocare a quel gioco: Giorgio impersonava Spock e Luca il dottor McCoy.

Era un pomeriggio di luglio, uno di quelli in cui l’aria sembra ferma e la luce non vuole saperne di spegnersi. Eravamo tornati da scuola da poco, troppo stanchi per fare qualsiasi cosa ma troppo inquieti per restarcene chiusi in casa. Ci ritrovammo come sempre nel cortile dietro il condominio, con tre sedie di plastica, una bottiglia di aranciata e il solito mucchio di battute senza scopo.

Fu Luca, come spesso accadeva, a rompere la noia.
«Allora, Capitano, ordini per l’equipaggio?» disse, portandosi la mano alla fronte come se salutasse militarmente.

Giorgio scoppiò a ridere e aggiunse, con un tono volutamente impostato: «Signor Spock pronto al rapporto! Analisi completata: il caldo terrestre è insopportabile.»

Io, senza esitare, mi sistemai sulla sedia come su una poltrona di comando, le gambe leggermente divaricate, le mani intrecciate davanti a me.
«Bene, Dottore, Signor Spock… la situazione è critica,» dissi con quella voce calma e controllata che, negli ultimi tempi, mi veniva naturale. «Suggerirei una ritirata strategica verso la gelateria più vicina.»

Risero tutti. Era un gioco, niente di più.

Luca continuò la parte del dottore, borbottando come McCoy: «Capitano, le consiglio di non strafare con i gusti. L’ultima volta tre palline di cioccolato hanno messo a rischio la missione.»

«Annotato, Dottore. Eseguiamo con prudenza,» replicai, serio ma con un accenno di sorriso.

Per un po’ continuammo così, trasformando il cortile nella plancia dell'Entreprise. Il sole calava piano e le risate si mescolavano al ronzio lontano dei condizionatori.

Ma mentre gli altri tornavano gradualmente sé stessi, io restavo nel ruolo. Mi guardavo intorno come se davvero fossi a bordo di una nave, come se ogni gesto avesse un peso. Non era più solo un gioco: c’era qualcosa, in quell’aria di comando, che mi dava una strana sicurezza.

Col passare delle settimane, qualcosa in me cominciò a cambiare, quasi impercettibilmente. All’inizio era solo una posa, un modo di scherzare: qualche gesto da leader, una battuta pronunciata con un tono più fermo del solito. Gli amici lo trovavano divertente: «Ecco il Capitano Kirk!» dicevano ridendo, e io sembravo prenderla con leggerezza.

Ma pian piano quel gioco prese piede in me. Non imitavo più le parole di William Shatner, né le sue espressioni teatrali: piuttosto, assorbivo l’atteggiamento. Cominciai a muovermi con una certa solennità, a stare in piedi con le mani dietro la schiena, lo sguardo fisso davanti a me, come se stessi osservando un orizzonte che gli altri non potevano vedere — proprio come faceva il Capitano Kirk nella plancia dell’Enterprise quando sullo schermo si annunciava qualcosa di ignoto provenire dalle profondità dello spazio.

Parlavo meno, ma quando lo facevo assumevo un tono deciso, quasi imperioso, come se impartissi ordini a un equipaggio invisibile.

All’inizio gli amici mi prendevano in giro in modo bonario. «Ehi, Capitano, che rotta impostiamo oggi?» scherzavano, e io accennavo un sorriso.

Ma con il tempo le battute si fecero meno frequenti. C’era qualcosa di strano, di leggermente inquietante, in quella sicurezza che sembrava non abbandonarmi mai. Anche nei momenti più semplici, come ordinare da bere o scegliere un film, mantenevo quell’aria assorta e autoritaria, come se stessi guidando una missione più grande di tutti noi.

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