L’appuntamento era stato fissato per le due di quel pomeriggio.

 

Naturalmente la mia ansia era cresciuta di ora in ora, proporzionalmente al bisogno di confrontarmi con lui.

Arrivai al Café de Flore in larghissimo anticipo e, per provare ad ingannare l'attesa, mi accomodai ad uno dei tavolini esterni, ordinando una porzione di dolce e un caffè.

 

Mi sorpresi ad osservare l’anonima umanità che, incurante della mia presenza, per qualche attimo incrociava il mio sguardo, all’angolo di quel boulevard.

Esistenze lontane, impenetrabili, ma forse non ostili. Chissà quante storie avrebbero potuto raccontarmi.

Incontri rinunciati, complessi meccanismi individuali che impedivano lo scoccare di una scintilla emotiva da condividere.

 

Solitudini fieramente esibite, attori non protagonisti di una recita, il cui copione, studiato e imparato a memoria, non prevedeva colpi di scena.

D’altra parte quella società stava ridistribuendo le carte e bisognava essere al tavolo del destino per tentare la giocata vincente.

 

Tuttavia, quella condizione di “clandestinità“ mi sollevava dalla necessità di un confronto diretto con gli altri esseri umani e mi liberava dalla responsabilità di ricercare un linguaggio condiviso, un territorio inesplorato da colonizzare e un nuovo decalogo da osservare.

 

Insomma, mi tenevo prudentemente a distanza da quel corto circuito emotivo che forse avrebbe potuto cambiare le sorti della mia partita con il mondo.

 

E poi, quale linguaggio?

 

Certo, utilizzavo le parole, ma a cosa erano servite fino a quel momento?

Lettere in sequenza, noiosamente ordinate ad evocare concetti astratti o immagini codificate.

Compiacenti e obbedienti, silenziose e puntuali nel regolare i rapporti umani, ma con la condanna ad un ingombrante conformismo, sancita da un ordine precostituito per il quale prestavano fedelmente servizio.

 

Gettando un occhio distratto al mio vecchio orologio, mi accorsi, con malcelata emozione, che l’ora del mio

appuntamento stava per scoccare.

Chiamai il cameriere e, dopo aver pagato il conto, chiesi dove avrei potuto incontrare il “professore“.

“Salga al primo piano, lo troverà lì“.

 

Una breve rampa di scale mi condusse al livello superiore del Café. Le tavole del pavimento, scricchiolando rumorosamente, annunciavano il mio arrivo. Esattamente il contrario di quello che avrei desiderato…

 

Sedeva a un piccolo tavolo rotondo, elegantemente intarsiato, illuminato da una grande vetrata che offriva una vista suggestiva di quel tratto del boulevard.

 

“Si accomodi pure”. Fu questa la cortese ma rarefatta accoglienza della quale fui beneficiato.

Di fronte a me, un uomo maturo ma non ancora anziano, un paio di occhialini rotondi a rendere più ieratico il volto e un abbigliamento sobrio e marcatamente distante dai canoni dell’eleganza ortodossa.

 

Lo sguardo severo ma interessato, sinceramente predisposto all’ascolto.

Riavvolsi i fili del mio ragionamento e raccontai di come mi fossi avvicinato alla scrittura quasi per gioco. Forse per scoprire me stesso e senza altre finalità: mi bastava questo.

 

Avevo chiuso la mia esperienza professionale e finalmente potevo liberarmi dalla commedia recitata fino a quel momento. Il mentitore trovava la sua verità nell’elaborazione dei propri sogni o delle sue false verità. Scrivendo, trovavo la prova della mia esistenza, fuggendo dagli altri. Era come se esistessi solo per la scrittura.

 

Attesi, con la consapevolezza di non poter alimentare oltremodo il confronto, le sue riflessioni.

L’accorata confessione di cui mi resi protagonista, gli suggerì una certa indulgenza nei miei confronti e lo spinse a trovare, generosamente, alcuni punti di contatto con il suo percorso umano e professionale.

Le passioni vitali, le suggestioni ideali, i sogni e le utopie, costellarono il suo percorso esistenziale, ponendolo spesso in contrasto con il suo mondo.

Dapprima, rispondendo ad un bisogno quasi primordiale di vanità personale e di affermazione sociale. Poi, con il passare degli anni, il disincanto e il cinismo presero il sopravvento, trasformandolo in un viaggiatore solitario del proprio tempo.

Non alla ricerca di risposte che, in definitiva, non si aspettava più.

La penna usata come una spada tornava a svolgere la sua naturale funzione e lui a scrivere libri.

“Che possiamo fare di diverso? Nulla dies sine linea“.

 

Alzò teatralmente lo sguardo verso di me, i piccoli occhiali, scivolati sul naso, rendevano ancor più professionale il suo aspetto.

Mi sorrise timidamente e mi salutò con una delicata stretta di mano.

Raccolse i suoi appunti e, ordinatamente, li ripose in una cartellina di cuoio che richiuse con gesto deciso.

Incise in basso a destra, notai, in un bel carattere dorato, le sue iniziali: J P S.

 

 

Parigi, 1964

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