La vecchia linea della ferrovia scorre sotto di noi. Lei lecca il cucchiaino del gelato mentre osserva la piantina distesa sulla sdraio di legno. Guardo la mappa, poi lei. Con l’indice crea invisibili linee che seguono le mie disegnate con il pennarello.
“Facciamolo!” mi dice mentre appoggia la coppetta e mi guarda.
“Davvero?”
“Facciamolo domani!”
Mi passa il cucchiaino, il sapore di menta e cioccolato mi scivola nella bocca.
L’idea è nata una mattina di giugno mentre andavo al lavoro. Scrutavo le insegne delle fermate oltre il vetro del vagone, la mia mente vagava in cerca di un modo per rendere memorabile il mio passaggio in questa città. Pensavo a lei, qui, sull’High Line all’incrocio con il Chelsea Market, distesa sulla sdraio ad osservare la cartina, con le gambe incrociate sotto la gonna a fiori e quel bagliore negli occhi mentre mi rivelava che lo avrebbe fatto, con me.
Le foto sono 133. Sulla parete della sua stanza formano un puzzle in cui le tessere si sovrappongono, si incastrano, si completano, una di fianco all’altra. C’è n’è una in cui indosso una maglietta fucsia, una con un paio di orecchini giganti, una in cui salto sullo sfondo. Accanto a me c’è lui che stringe la cartina tra i denti o indossa gli occhiali da sole. Le foto riempiono il muro sopra la sua scrivania cosparsa di libri e cd. In mezzo troneggia quella che ho fatto stampare più grande, da cui tutto è cominciato: le mie labbra si posano sulle sue davanti all’insegna della First Avenue.
Faccio un passo indietro pensando a tutti gli altri istanti che l'obiettivo non è riuscito a catturare. Le luci di Manhattan iniziano ad accendersi oltre la finestra. Prendo lo scotch, la mia borsa, le chiavi, spengo la luce e socchiudo la porta. Poi resto un attimo sulla soglia immaginando il suo rientro.
Siamo pronti.
Zaino sulle spalle, biglietti alla mano, cellulare in tasca, cartina e matita: tutto quello che serve. Siamo davanti ai tornelli. Sono le dieci di una mattina di luglio. Lei sfiora il mio braccio con il biglietto prima di strisciarlo con decisione e superare la sbarra.
“Vieni?”, mi chiede.
Sarà divertente? O ce ne pentiremo?
La scritta “2.50$ GO” compare sul pannello in piccoli puntini verdi, il tornello ruota, la sua mano si stringe alla mia e mi trascina fino all’insegna della fermata. È un mosaico di quadratini di ceramica blu, bianchi e verdi. Il resto lo vedo attraverso lo schermo del mio iPhone, almeno finché prendo l’inquadratura e cerco di mettere noi al centro del display. Poi le sue labbra si poggiano sulle mie e istintivamente chiudo gli occhi mentre il mio dito tocca lo schermo immortalandoci sulla banchina della First Avenue.
“Cosa state facendo?”
Sembra imponente con la sua uniforme blu con la scritta MTA sul taschino, ci insegue urlandoci contro e ci blocca al limite tra la linea gialla sul pavimento e il treno in stazione. Lui estrae il biglietto dalla tasca dei jeans.
“E con questo?”
“Stiamo solo salendo e scendendo dallo stesso treno.”
“A ogni fermata?”
Mentre lui sta valutando cosa rispondergli, il bip intermittente delle porte in chiusura riempie il suo silenzio. Guardo il controllore, il vagone, una signora che sta salendo. Le mie dita si stringono intorno alle sue. Poi saliamo e le porte si chiudono alle nostre spalle, i pugni del controllore sbattono con violenza contro il vetro quando iniziamo a muoverci.
“Non credevo lo avresti fatto.” commento eccitata.
“Ho solo seguito te.”
Gli altri passeggeri ci fissano incuriositi. Incurante sfilo la cartina dalla borsa e la matita dai miei capelli.
Alcune ciocche mi passano davanti agli occhi mentre con la punta traccio una croce sopra a Penn Station.
Linea B, local. Sedili gialli e arancio incastrati a tetris. Lei è seduta dietro di me, va nel senso di marcia. Io seguo al contrario il muro nero che scorre fuori dal finestrino. Poi la visuale si apre su una parete di piastrelle bianche intervallate da copie di fossili incastrate al suo interno.
81 St-Museum of Natural History.
La carrozza si ferma davanti alla scalinata che conduce al museo. Lei mi prende per mano e mi guida fino a quel mosaico di quadratini azzurri e blu che inizia prima dei gradini.
È un acquario sotterraneo. Uno squalo insegue un branco di pesci. Ci sono le alghe, le stelle marine, i granchi. Le porte del treno si chiudono alle nostre spalle e girandoci lo vediamo allontanarsi. Le passo un braccio dietro la schiena e la conduco lungo la banchina. Serpenti, dinosauri, coccodrilli di ceramica si succedono, evolvono sulla parete davanti ai nostri occhi. Lei tiene un dito premuto contro le piastrelle, segue i contorni degli animali, sfiorandoli, disegnandoli. La stringo più forte sentendo la linea delle sue costole sotto il vestito leggero.
“Non credevo sarebbe stato così.” le rivelo.
“Così come?”
Le scosto i capelli dall’orecchio e le sussurro:
“Inaspettato.”
Quando lei si stacca mi sorride, le sue mani si posano sul mio petto; con una ascolta il battito del mio cuore, con l’altra mi ruba il cellulare dalla tasca dei jeans. Poi ci immortala davanti all’insegna, mentre io fingo di tuffarmi nell’oceano di mosaici blu.
181 St, 191 St, Dyckman St, 207 St, verso l’alto, verso la fine di Manhattan. Manca solo una fermata.
Il treno è quasi deserto. Il getto dell’aria condizionata ci raffredda e lo sferragliare del vagone si ripete monotono fin dall’inizio del viaggio. Siamo in piedi davanti alla porta d’uscita, pronti a saltare giù per l’ultima foto. Lui fissa un punto indefinito oltre il vetro.
“A cosa pensi?” gli chiedo.
Alza lo sguardo e punta il dito contro la cartina sopra la nostra testa.
“Questa è l’ultima.”
Il resto non lo dice, non ammette che questo momento gli sta sfuggendo, che non è preparato a mettere la parola fine.
“Domani saremo ancora qui.” lo rassicuro.
“E scenderemo ancora a ogni fermata?”
“Spero proprio di no.” replico punzecchiandogli un fianco.
Le sue mani mi afferrano e iniziano a solleticarmi. Cominciano così le risate, con le sue dita che mi stuzzicano e le mie suppliche di perdono. Continuano quando la porta si apre davanti a un signore che sale evitandoci e quando le lamiere si chiudono dietro di lui.
Il treno imbocca il ponte e attraversa l’Hudson. Il sole sta tramontando quando realizzo che questo viaggio non è ancora finito. Lui mi tira a sé, infilandomi una mano tra i capelli mentre i raggi rossastri ci abbagliano.
Apro la casella di posta elettronica. C’è una mail non letta. È di lei. Nessun oggetto, solo un link come testo. Lo apro.
New York City – One ticket for 118 stops
Sono 143 le stazioni della metropolitana di Manhattan, 118 se si considera ogni fermata in cui passano più linee come unica. Per attraversarle tutte, il tempo necessario è di circa 9 ore. 133 sono le foto che una coppia di ragazzi ha scattato in singolo viaggio, in 9 ore scendendo a tutte le 118 stazioni.
Obiettivo: scendere a ogni fermata, trovare un’insegna della stazione, scattare una fotografia e risalire sul treno prima che le porte si chiudano...
È un sito di notizie sulla città. In un angolo dell’home page c’è la nostra storia. Può passare inosservata come il viaggio che abbiamo fatto, quel viaggio che migliaia di persone percorrono ogni giorno. Fatto di miglia che scorrono sotto i vagoni e di fermate che passano veloci oltre i finestrini. Composto da milioni di storie che si intrecciano, sfiorandosi, sfuggendosi, creandosi. In mezzo a tutte queste c’è anche la nostra.
Una storia d’amore? Forse, anche. Verso una città dove tutto scorre più velocemente che altrove. Dove un semplice viaggio in metropolitana può diventare la notizia del giorno.
Cerco il suo nome sul cellulare e la chiamo.
“Che hai fatto?”
“Quello che hai fatto tu per me.”
Penso a tutto quello che abbiamo condiviso in quella giornata e mentre il mio sguardo si posa sul suo viso corrucciato immortalato sulla mia parete lei aggiunge:
“Non sei felice ora?”
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