Aveva aspettato di essere solo in casa. 
Aveva aspettato che suo padre uscisse per un bianchino, sua madre per le compere.
Aveva assicurato entrambi di star meglio ormai da giorni, che andassero tranquilli. 
E da giorni infatti aveva ricominciato a lavarsi e sbarbarsi per dare di sé un’immagine un po’ più dignitosa e accettabile alla vista dopo settimane di abulia più completa. 
Addirittura si era messo un paio di jeans e un maglione al posto della tuta che era diventata il suo abbigliamento unico e costante. 
Ogni tanto aveva perfino sorriso. 
Prima o poi doveva succedere che lo lasciassero solo, anche se per poco tempo.
Che si fidassero. Tanto non aveva fretta.
Aveva calcolato e preparato tutto tranne il giorno. E il giorno era arrivato.
Dall'alloggio al piano di sopra nessun rumore: sua sorella era a far scuola e suo cognato lo aveva visto uscire poco prima. Erano le undici del mattino, un mattino di una fredda giornata di novembre che aveva portato la prima neve.
Allora uscì dall’appartamento dei genitori che da quando cominciò a star male era diventato anche il suo perché, pur avendo il proprio alloggio nella stessa palazzina, aveva preferito, anche su consiglio medico, condividere, fino a quando non lo sapeva nessuno, la propria vita con loro.
Aveva preferito avere qualcuno sempre vicino. E loro preferivano averlo vicino.
Tranne quella mattina di novembre.
Aveva con scrupolosa attenzione preparato tutto.
Si era lavato e sbarbato di proposito proprio per quello: per dare di sé un’immagine “nuova”. Per essere creduto ed essere lasciato solo il tempo che stimava necessario. 
Gli avevano creduto assicurandogli che di lì a poco sarebbero rientrati.
Scese le scale, entrò in cantina e trasse dalla tasca dei pantaloni la chiave che era riuscito a capire dove fosse nascosta. Nascosta a lui.
Entrato in cantina con quella chiave, aprì l’armadio blindato in cui custodiva i suoi fucili da caccia (quando ancora ci andava) e lo aprì. Dentro, in bella mostra, ce n'erano tre.
Scelse la carabina Browning Bar Long Trac, quella che adoperava par la caccia al cinghiale, la sua passione.
Le passò amorevolmente sopra uno straccio per ripulirla dalla polvere, la rimirò in tutta la sua fattezza come se quella fosse la prima volta che vedeva un'arma, la caricò con una cartuccia calibro 30-60. Una sola.
Poi si mise a sedere sulla panca di legno appoggiando a terra il fucile, tenendolo stretto tra le ginocchia con la canna rivolta verso l'alto. 
Alla bocca della canna poggiò il mento e con il pollice schiacciò verso il basso il grilletto. Ce l’aveva fatta.
Il botto che provocò il rumore dello sparo fu sentito, anche se ovattato dal soffitto a volta della cantina, pure dalla signora che stava nella casa a fianco, tanto che la poveretta istintivamente guardò fuori dalla finestra credendo ad un incidente d'auto.
L’occhio umano non ha la capacità di vedere un proiettile che esce dalla canna di un fucile.
La velocità è tale che nemmeno gli occhi più allenati riescono a mandare l’impulso alla retina e questa al cervello.
Ma gli effetti che provoca un colpo di fucile quelli sì che sono visibili. Terribilmente visibili e devastanti.
Il proiettile gli aveva reciso di netto la mandibola, il naso e l'occhio sinistro era letteralmente schizzato fuori dall'orbita. Quello destro era rimasto aperto a fissare qualcosa di indefinito che ormai non poteva più vedere.
Le pareti erano chiazzate di rosso del sangue e del grigio di materia cerebrale che si era sparsa ovunque assieme a schegge di ossa. Il locale odorava di cordite e un leggero fumo azzurrognolo aveva invaso il tutto. Il bossolo si era conficcato sul soffitto a far bella mostra di sé, incorniciato da un alone nerastro.
Ero andato a trovarlo solo due giorni prima e gli avevo chiesto come stava. Male. Lo si vedeva che stava male. Che la depressione si stava impadronendo di lui giorno dopo giorno, nonostante i lunghi colloqui con l'analista e gli antidepressivi di cui praticamente si nutriva.
Sapeva, perché glielo avevo detto, forse per rincuorarlo anche un po', che anch'io a suo tempo ero stato vittima di questa subdola e crudele malattia. E sapeva anche che ne ero uscito.
“Tu ce l'hai fatta” mi disse. 
“Vedrai che ce la farai anche tu” gli risposi.
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