Che qualcosa sarebbe andato storto avrei dovuto capirlo già quando, sul tabellone che indica i minuti di attesa della metropolitana, è apparso un bel 7½. E' mai possibile che alle sedici e trenta del venerdì pomeriggio, si aspetti la metropolitanta per ben sette minuti e mezzo? E fossero almeno sette minuti e mezzo! Eh sì, perché morire che per una volta quei minuti passino con la stessa velocità di quelli sul mio orologio!
Eppure, intorno a me, nessuno fiata e tanto meno nessuno dà in escandescenze. Anzi, mi guardano un po' stupiti, e forse un po' infastiditi, dai miei sbuffi e dalle mie inequivocabili manifestazioni di ira. Beh, forse sono io l'unica ad essere uscita di casa di fretta stamattina, senza neppure rifare il letto (che mi aspetterà sfatto e sciatto al mio rientro), pur di arrivare in ufficio alle 8,30, in modo da poter uscire alle 16,30 e arrivare puntuale alle 17 a questo maledetto colloquio. Dimenticavo, per uscire puntuale ho dovuto anche tentare di mimetizzarmi il più possibile con la parete grigia del corridoio, mentre passavo davanti all'ufficio di Anselmo, pensando: "Ti prego, ti prego, fa che non mi veda!". Invece mi ha visto e ho sentito la sua voce che mi inseguiva "Ah, Marianna...!". Troppo tardi, per fortuna avevo già un piede infilato nell'ascensore e le sue porte si sono richiuse dietro di me.
Ok, sette minuti e mezzo di attesa, poi la metropolitana stracolma, come sempre, e come sempre qualcuno calpesta una delle mie ballerine beige. Lo ammazzerei più per aver sporcato la scarpa che per il dolore lancinante al mignolo. Metto queste scarpe col contagocce proprio per evitare di sporcarle, così chiare come sono, le tengo per le occasioni importanti e quella di oggi lo è proprio, o almeno così mi sembrava. Mi sono vestita con cura, il tailleur pantalone beige e la camicia di lino, che ora ha una brutta piega sulla spalla, provocata dalla borsa. A questo colloquio ci tengo proprio, perché ho proprio bisogno di un lavoro, perché non sopporto più Anselmo e anche molti dei miei colleghi, con i loro piagnistei e i loro "Con la fusione ci licenzieranno tutti". Ho bisogno di lasciarli e di andarmene, via, aria, per il mio bene e anche per quello di mio marito e delle mie sorelle, che potrebbero non reggere ancora a lungo le mie lamentele.
Per fortuna sono solo due fermate e arrivo davanti al portone alle 17 in punto. Mi affretto per le scale, tanto ormai conosco la strada, visto che sono già al secondo colloquio, e suono il campanello mentre sono ancora sul penultimo gradino, tanto per guadagnare qualche secondo.
La receptionist mi sorride con aria interrogativa, io ricambio il sorriso con uno sguardo del tipo "Ci conosciamo, sono stata qui la settimana scorsa, ricordi?"
Poiché non sembra ricordare, dico: "Sono Di Cuori, ho un appuntamento con il dottor Paoli".
La receptionist si alza faticosamente sui tacchi a spillo che spuntano dai jeans superaderenti e mi accompagna nella saletta della settimana precedente. Con aria indolente mi chiede se voglio un caffé, dell'acqua o qualcos'altro. Rispondo che no, grazie, non voglio niente. Anzi, sarebbe molto meglio se il dottor Paoli si affrettasse, così riesco anche ad andare al supermercato. Questo naturalmente non lo dico però sarebbe molto carino se il dottor Paoli facesse in fretta, visto che ho corso tanto per arrivare in tempo e stasera dovrò fare anche il letto.
No, il dottor Paoli a quanto pare non brilla per puntualità, penso mentre mi guardo intorno, cercando qualcosa di interessante sulle pareti bianche davanti a me. Per fortuna mi ricordo del cellulare, lo cerco affannosamente nella borsa, sperando che ora il dottor Paoli aspetti un attimo prima di entrare da quella porta. Finalmente lo trovo, lo spengo... giusto in tempo: il dottor Paoli si annuncia con un leggero colpetto sulla porta, poi entra.
Ha barba e baffi neri, con questo caldo viene quasi un calo di pressione a guardarlo. Ha una maglietta verde con degli aloni sotto le ascelle e jeans chiari. Per un attimo vorrei piangere e scappare. E io che ho sacrificato la mia ballerina e mi sono preoccupata per la piega della borsa sulla camicia! Non sono sicura di voler lavorare con uno così. La direttrice dell'ufficio del personale, con cui ho fatto il colloquio la settimana scorsa, non mi aveva preparato a questo. E nemmeno il consulente della società di selezione.
Poi penso ad Anselmo, ai miei colleghi, alla fusione. No, non mi fermerò davanti a questo, che mi importa se il dottor Paoli si accarezza la barba? Un ambiente informale è quanto di meglio si possa desiderare.
Mi alzo tendendo la mano.
"Marianna Di Cuori," mi presento.
"Dottor Paoli," sorride lui da dietro la barba. Alla faccia dell'ambiente informale!
Mi chiede di riassumergli le mie precedenti esperienze e io parto con il solito raccontino, ripetuto così tante volte, e mi sento come un venditore porta a porta che tenta disperatamente di propagandare un prodotto in cui ormai non crede più neanche lui.
Il dottor Paoli intanto legge il mio curriculum vitae e sembra che lo stia guardando per la prima volta. Beh, che dire? Uno come lui, così occupato, mica avrà avuto il tempo di dargli un'occhiata prima, no?
"Leggo che lei parla molto bene l'inglese".
"Sì," dico, "ho vissuto un anno a Londra e poi ho lavorato in tre multinazionali americane." Mi rendo conto che il mio tono è un po' seccato, ma questa parte l'avevo già detta e credevo che almeno mi avesse ascoltato.
"Lei ha figli?" mi chiede.
"No," dico e vorrei sapere questo cosa c'entri con il mio lavoro, ogni volta mi sfugge il nesso, forse sono un po' tonta.
"Però potrebbe averne!" esclama il dottor Paoli come se fosse un difetto terribile.
Per un attimo ho un déjà vu, sei anni fa e Anselmo seduto davanti a me che mi chiede se ho figli, se ne voglio, e poi conclude che l'importante è essere coerenti.

E va bene, ho capito, non avrò questo posto e in fondo non lo voglio neanche più.
"Ho trentacinque anni," dico mentre mi alzo e rimetto la borsa al suo posto, esattamente sulla piega della camicia, "se non potessi averne, sarei malata".
Apro la porta e passo velocemente davanti alla receptionist che, stupita, alza lo sguardo dall'unghia scheggiata.
In testa ho un solo pensiero: chissà se farò in tempo ad andare al supermercato!
 

 

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