La blefaroplastica, tuttavia.

Nel mezzo s’intravede un ché di luminoso, un faro probabilmente, un nume che rischiara la via e financo c’illumina sul significato occulto di tale parola. Il faro scopre il bluff e liquefa la plastica. E dopo, che rimane?

Certo che stare nel mezzo è proprio bello, e non vale solo per il faro. In media res virtus. Insomma, la gioia della posatezza, la virtù dell’equilibrio. Ma quanti possono dire di esser veramente equilibrati? Pare la società non sia fatta di molti equilibrati, semmai trabocca di equilibristi. Tuttavia si fa un gran parlare di equilibrio: è concetto cruciale, quasi salvifico. Quindi il sacro ruolo del mezzo, e come mai invece si preferisce spesso l’intero? Voglio tutto o niente! L’intero nella sua interezza è tutto ciò che vogliamo. Oddio, non che il latte intero faccia benissimo e poi il biglietto intero sa tanto di fregatura. Eppure pletore umane non si accontentano di una fetta, di una parte, di una porzione, e perciò arraffano, depredano, fagocitano. Direi che presenzia la visibile assenza di morigeratezza… Le desolate terre dell’equilibrio sono remote come i confini del mondo.

Si fa un gran parlare di proporzionalità: la risposta all’aggressione dev’essere proporzionata (quindi equilibrata), la risposta alle bombe dev’essere proporzionata (quindi equilibrata). E’ un po’ il nucleo del discorso, anzi del dialogo, eppure in tanti l’equilibrio lo vedono nel nucleare, non nel dialogo. Quanto vorrei un’umanità in cui non si scagli una sola freccia, in cui non si usi una sola arma, in cui non si muova un solo carro armato, e non lo si faccia per il semplice e solo motivo del comune senso del pudore. Ossia, nessuno di noi cammina nudo per strada e non lo si fa non perché sia ingiusto quanto perché ce ne vergogniamo. Ecco, esportiamo il concetto all’offesa: non si spara e non si pensa nemmeno di farlo perché è contrario al pudore e ne avremmo onta come a esibir le pudenda in pubblica via.

L’equilibrio si diceva: è il mezzo per la sopravvivenza ed è in mezzo che si sopravvive. A metà si è più saggi, a metà strada si può decidere se tornare indietro o meno. Metà ha un’accezione assertiva: non casuale è l’assonanza con meta. E non concordo con chi per il solo fatto di iniziar bene, pensa di essere già a metà dell’opera; intendo, è un po’ svalutativo della metà, che semmai è ben più ardua da raggiungere: a metà siamo (già) a metà dalla meta. Né tampoco concordo con Dante che nel mezzo del cammin ci fa piombare in una selva oscura. Ma ovviamente noi non ce ne curiam e comprendiamo che non meno oscura è la blefaroplastica.

 

Già, la blefaroplastica. A proposito, ma tutto questo cosa centra con la blefaroplastica?

 

Qualcuno evocherebbe l’amor proprio malato, il raccapricciante tentativo di piacere e di piacersi, il dimenante anelito alla giovinezza…Invero, che male c’è a volersi disfare di pliche cutanee e borse adipose? Certo, svuotare borse e appiattire pieghe, la cosa potrebbe prendere una brutta piega, soprattutto per quelle borse, o sporte che dir si voglia, che senza il contenuto meste si afflosciano: qual è il senso del contenente spoglio di contenuto? L’albero spoglio fa tristezza, il continente pure, idem per la maggior parte degli esseri umani. Chi è spoglio d’inibizioni va inibito d’urgenza. Lo spoglio elettorale porta sempre brutte soprese. Spogliate gli scritti di ogni abbellimento retorico e stilistico: ah, che affronto insanabile, come si fa a scrivere senza fronzoli e orpelli? Certo, un po’ mi contraddico con quanto detto sopra circa l’inutilità delle centinaia di termini, ma la colpa non è mia, bensì della penna, che gradisce volteggiar senza tema ma su più temi, e ti tocca guarnire, adornare, infarcire, infiocchettare, decorare, ornare, insomma ti tocca intasare lo scritto di moti ondosi e verbosi, che ti vien la borsite pur senza borse agli occhi.

Quel che sia, il problema della borsa vuota rimane, cui naturalmente ben altri si possono ammonticchiare, come gli abiti dimenticati sulla gruccia, desolati nell’ambascia di un corpo. La cosa che non si usa va gettata come la plastica non riciclata. Punto e basta. Perché privarci del piacere di scartare, di buttare, di sbarazzarci di qualcosa o di qualcuno? Che sia un divorzio, un animale, persino la nostra dignità, noi necessitiamo rifiutare: il rifiuto come atto terapeutico, per non parlare della guerra, ovvero l’impellenza estrema a rifiutare persone e palazzi, strade e ospedali; e non c’è nemmeno il problema del riciclo: a chi interessa riciclare il marito o il nemico?

 

Ma va da sé, tutto ciò interessa poco alla blefaroplastica.

Cui semmai

interessa provar

il ciglio a sollevar

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