Io sono dietro di lei e la squadro tutta, da capo a piedi, mentre lei è intenta a guardare fuori dalla finestra con le mani messe sui fianchi ad anfora, ma si fa presto, perché non arriva a un metro e cinquanta. Non è più giovane, ma ha ancora tutti i capelli folti e aerei come un quadro di Chagal, però non lo conosce; e se lo conoscesse, sono certa che non le piacerebbe. 

Per lei un bel dipinto è un paesaggio riconoscibile dove si vede una casa grande e quadrata, il giardino intorno curato e un  viale che porta a un cancello. Oppure é il ritratto di nonno Pietro appeso in sala, anche se dice che non sembra lui, da tanto che è bello.

È piena di dolori e di tic, e più si innervosisce e più le partono i tic. Adesso si è fissata con un grande Abete di fronte alla cucina e lo vuole far abbattere. Sbraita, sbuffa e alterna le spalle avanti e indietro, come una stampella dei panni lasciata appesa al vento.

“Ma perché lo vuoi far tagliare zia? Questo albero è puro ossigeno.”

“Ma sei matta? Pago un botto di luce per quell’albero che fa ombra in casa e dove li trovo tutti questi soldi per la luce che consumo? L’ ossigeno me lo daranno all’ospedale, prima o poi.”

“I soldi li devi chiedere a qualcuno dei tuoi figli. Tu li hai sempre aiutati.”

“Se, aspetta e spera. Porca miseria si attaccano le fettuccine! Girale che stendo il bucato.”

Torna e mi toglie il mestolo dalle mani e si rimette alla finestra con le mani ad anfora.

”Eccola è lei. Quando la vedo mi va il sangue alla testa, ti giuro la scorticherei.”

“Ma chi quella ragazza bionda?“dico mentre mi avvicino a lei.

“Quella schifosa ha sfatto la famiglia con una creatura piccola e adesso sta con quello.”

“Zia scusa, ma hai mai parlato con lei?

Lei si gira e mi brucia con lo sguardo

 “Pensa che mi saluta pure quella! Io manco le rispondo.”

“Magari il marito la picchiava, la maltrattava, i tempi sono cambiati, non è mica come una volta che le donne subivano tutto. Ma poi non ha un nome?”

Rimane zitta e partono i tic, prende un panchetto di legno ci monta sopra e scola le fettuccine. Ci pensa:

“Ma chi se lo ricorda. E poi che mi importa! Ah sì… Marina si chiama.

Mangiamo in silenzio, sembra offesa ma forse è solo pensierosa e parlo per prima:

“Sai zia, ogni tanto devi pensare a te, lascia perdere le nuore, i figli, i nipoti, i tuoi fratelli, se sei stanca lascia stare e riposati. Oggi ci penso io qui.”

“No, faccio io.”

La notte dice che non riesce a dormire, stanotte si è seduta accanto a me sul letto, le ho portato un sacchetto con dentro un profumo, qualche crema, un fondotinta compatto.

“Meno male, ho la pelle secca e rugosa, non mi sono mai vista così brutta come ora.”

È contenta come una bambina, inforca gli occhiali, guarda tutte le scatole e mi domanda tutto.

Mentre Parla mi tocca la camicia da notte che è bianca di cotone e poi riprende a cucire un incrociatino in filo di Scozia. Per un attimo ha l’aria persa nel vuoto. Forse c’è qualcosa di romantico che la riporta indietro nel tempo. 
“Raccontami di quando ti sei sposata, zia.”

“Lascia perdere, se fosse stato per me, quando siamo tornati dal viaggio di nozze mi ero già separata.”

La guardo in silenzio e sono presa alla sprovvista, mi ero fatta un film, penso a mio zio con quel faccione buono e mite, e non so che dire.”

“Perché?”

Non risponde ha gli occhi rossi, poi fa una smorfia da bambina.

“Solo se me lo vuoi dire.”

Abbassa gli occhi e tira su le spalle.

“Ma sai non si sapeva nulla una volta e per me la prima notte doveva essere qualche bacio, qualche parola. Invece era anche altro. Tutto e subito. Non mi piacque per niente, solo dolore e nessun piacere. Lo dissi anche alla mamma e poi i pianti che mi sono fatta, non volevo più andare con lui, erano altri tempi. Anche lui era un ignorante poveraccio.

“Si zia, hai ragione. Erano altri tempi.”

Continua a parlare, la notte è lunga e alla fine si addormenta accanto a me. Sembra una bambina.

Se solo potessi, le regalerei una grande scatola con dentro ancora tutti i suoi sogni intatti e integri.

“Buonanotte zia.”
 

Il mattino dopo devo ripartire, mi prepara la colazione, il caffé si mescola con il profumo del gelsomino che le ho regalato e ha sul viso il colorito ambrato della cipria.

“Ciao cocca mia, fai buon viaggio“ mi porge un sacchetto - ti ho lavato e stirato la camicia da notte e ti ho cucito l’incrociatino. Qui noi lo chiamiamo scaldacuore. Magari ne farò uno anche a quella sciagurata.

“Marina?“ - dico ridendo.



 




 

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