Ragazzino, mi ero infatuato di Mirella per i suoi boccoli e gli occhi luminosi. Aveva qualche anno più di me, frequentavamo la parrocchia “Madonna della Speranza”: lei il convento attiguo, dove imparava a ricamare e a badare ai piccoli dell’asilo; io l’oratorio, per giocare a calcio e a ping pong.

Ogni tanto il parroco, Don Ellena o il teologo Feyles mi reclutavano per aprire con la croce un corteo funebre. La tonaca da chierichetto mi copriva le scarpe e non di rado il bordino della suola si incastrava nell’orlo della veste. Rischiavo di cadere specialmente quando salivo scale. 

La piccola croce era fissata in cima a un’asta che reggevo a braccia semi tese. Nei disordinati movimenti per stare in piedi, il Cristo ondeggiava come l’albero di un veliero nel mare in burrasca. Terminata la funzione, mia madre ricuciva l’orlo della tonaca e il prete mi compensava con qualche soldo.

La passione per Mirella non mi fece mai perdere l’appetito. Magari fosse successo, con la fame che mi portavo addosso! Quello che passava lo Stato serviva appena per sopravvivere e se non si poteva arrotondare con la “borsa nera”, erano morsi allo stomaco. 

Nell’inverno del ’43, ebbi l’occasione di avvicinarmi alla ragazza. Avrei voluto avere i pantaloni lunghi, invece indossavo quelli corti da dove uscivano gli elastici a cui erano agganciate le calze che arrivavano a metà coscia. La striscia di pelle fra l’orlo dei due indumenti era rosso cupo per il gelo. Avrei anche preferito i capelli ondulati, invece erano dritti come il ciuffo dell’upupa. Li modellavo con l’acqua zuccherata, ma quando si indurivano sembrava di avere in testa un elmetto. 

Le suore volevano far recitare noi giovani in una commedia scritta dalla madre superiora con un titolo inquietante: “Buongiorno, Giovanni. Non arrivò alla prova generale. Era la storia di un’anima che aveva perso la strada per il paradiso. La trama era contorta, stava alla sagacia degli spettatori capire che lo spirito del defunto tentava di orientarsi nell’intrico di vie. Nonostante l’impegno non riuscivo a dare alla recita l’intensità espressiva richiesta. Dopo l’ennesimo tentativo, l’autrice-regista mi cacciò, quasi a pedate, dal palcoscenico. 

Il mio posto nel gruppo di “attori “ lo prese Gigi, un giovane immigrato che lavorava alla Grandi Motori di Torino. Viveva solo in una camera in via Leinì. Dei suoi genitori non si è mai saputo nulla. Era un bel ragazzo sul biondo, sempre sorridente, con un accenno di barba che non riusciva a nascondere i brufoli. Aveva un paio d’anni più di Mirella e un giorno li vidi a braccetto. Diventarono inseparabili, ma nella loro vita il destino aprì una parentesi che si chiuse tragicamente. 

Mirella abitava in via Rondissone ed era figlia di un magazziniere che tutti chiamavano “Orbace” perché vestiva sempre la divisa fascista. Piccolo di statura, rotondo, con la cinghia dei pantaloni che gli solcava il ventre sotto l’ombelico, non gradiva che un semplice operaio, scartato anche alla visita di leva, se la intendesse con sua figlia. L’opportunità al giovane di fare il militare gliela diede Mussolini, quando chiamò alle armi anche i riformati, per uno sperato colpo di coda che avrebbe dovuto capovolgere la situazione dell’Italia, per tre quarti occupata dagli Alleati. 

Per formare l’Unpa (Unione Nazionale Protezione Antiaerea) furono reclutati anche detenuti e barboni, con il compito di recuperare le vittime tra le macerie dei bombardamenti. Però il loro interesse principale era quello di mettere le mani sui preziosi e sulle bottiglie di vino. 

Gigi aderì alla Decima Mas e firmò la sua condanna a morte. Una sera tardi, mentre tornava a casa, un partigiano gli puntò la canna della rivoltella tra gli occhi e l’ultima cosa che vide, fu una vampata. Cadde su un mucchio di neve in corso Vercelli, davanti al 122. Non morì subito, il gelo gli bloccò l’emorragia. Rantolò tutta la notte, vegliato da dietro le persiane da chi aveva udito lo sparo e sentiva i lamenti. Nessuno, però, ebbe il coraggio di uscire: c’era il coprifuoco. Lo portarono via all’alba. Sulla neve rimase una macchia rotonda di sangue. Nella camera dove abitava, in una scatola per scarpe c’erano lettere e fotografie, i ricordi sereni di una breve vita.

La rappresaglia fascista si scatenò con i rastrellamenti. Chi ci incappava, finiva direttamente in via Asti. Presero anche mio padre che tornava dalla Fiat Sima, di via Cigna, con la borsa del “barachin” sotto il braccio. Lo tirò fuori all’ultimo momento Lena L., una vicina di casa, che poi apprendemmo essere molto attiva nella famigerata caserma. Alla Liberazione appesero la donna per il collo a una grata della finestra dell’Istituto Ciechi, di via Nizza. Implorò più volte “ho due figli, ho due figli, ho du…..” e finì di scalciare. 

 Un paio di giorni dopo, “Orbace” il papà di Mirella, viaggiava sul cassone di un motocarro, inginocchiato tra due uomini che gli puntavano la pistola alla testa. Andava a morire. Indossava un completo grigio, lo stesso colore del suo volto. Sanguinava alla radice del naso. 

Anche Mirella smise di vivere. Si sfracellò in sottoveste dal quarto piano, nella tromba delle scale. Nessun addio, solo la testimonianza delle pantofole sul pianerottolo. 

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