In paese mi chiamano l’ombroso o lo scuro. Non hanno torto.

 

D'altra parte vivo una vita solitaria, metodica, quasi autistica, chiuso nel mio piccolo mondo inerme con i suoi piccoli odori. Non ho più affetti a cui voler bene e dedicarmi, ho però i ricordi che spolvero regolarmente. Abito da solo in una grande casa che era di mia moglie, poi durante la separazione, pur di liberarsi velocemente di me, decise di regalarmela, non per generosità ma per totale insofferenza nei miei confronti. Già allora era grande per due persone, figuriamoci adesso che sono rimasto solo. Tuttavia la mia non è un'esistenza noiosa come potrebbe sembrare, ho la scrittura a tenermi compagnia, i libri che leggo, i personaggi delle mie storie, con i quali parlo e che mi rispondono. Mi vesto sempre di nero quando esco, è un non colore che amo perché mi confonde col buio della notte. Potrei uscire durante la giornata, nulla mi trattiene dal farlo, ma non voglio incontrare gente sconosciuta, che mi guarderebbe con sospetto facendosi mille domande e scrutandomi con occhi interrogativi. La notte invece è beatitudine: non trovo nessuno che mi passa accanto, ogni tanto gli uomini della nettezza urbana che manco mi vedono, qualche auto lontana e il fiato dei cani nei giardini bui che ormai conoscendomi, hanno smesso di abbaiare. Passo davanti alla casa di Teresa, l'anziana signora che, quando ero ancora sposato, ci offriva spesso un caffè raccontandoci sempre le stesse cose che io ascoltavo come fossero nuove, ripetendo le stesse domande di sempre. Non ha denti ma è sempre pettinata e profuma di pulito. È l'unica dalla quale accetto una minima compagnia domenicale: in fondo ci assomigliamo: parliamo poco senza mai invadere i nostri spazi: nonostante le mille domande che avrebbe da pormi sulla mia vita di adesso, non mi chiede nulla, quindi si può dare tutte le rispose che vuole, una vale l'altra e tutte sono esatte. Ai lati della provinciale, deserta a quell'ora, ci sono due canali, regno incontrastato di ratti e nutrie, case fatiscenti occupate da indiani e campi, tanti campi incolti. C'è anche il cimitero con il cartello degli orari illeggibile, illuminato da tenue comprensive luci silenziose, piccoli falò in un campo di pace. Proseguendo incontro la chiesa dove mi sono sposato; non è cambiato nulla da quel giorno: è stata restaurata la facciata ma la parte laterale è ancora pericolante, proprio come allora. Di nuovo c'è solo il parroco. Non vado mai a fare la spesa, il supermercato del paese me la consegna ogni giorno; una volta a settimana passo molto presto per regolare il conto, lasciando una mancia per il garzone. Che poi mi accontento di poco, pasta integrale, qualche fettina di carne bianca e verdure, acqua gassata perché vino non ne bevo più. Non so bene il motivo della mia separazione, non che l'abbia scordato, proprio non lo conosco e spero che anche per la mia ex sia lo stesso e come me provi un senso di fallimento e di rimorso. Probabilmente, in maniera semplicistica, mi dico, che non era amore, ma qualcosa che gli assomigliava, perché fosse stato un sentimento vero e forte come l'amore, non ci saremmo lasciati. Forse è stata la mancanza di brio e allegria a deteriorare il nostro matrimonio, la monotonia di giorni uguali, alla lunga banali e scontati, la pesantezza silenziosa della mia esistenza. Ammetto di essere un uomo complicato e problematico, però mai avrei immaginato una fine così ingloriosa. È capitato una sera, l'unico momento della giornata nel quale ci vedevamo: uscì dalla sua bocca, per la prima volta, la parola “divorzio”, dopo una forchettata di penne all'arrabbiata, con il sugo che le colorava le labbra. Risi, per tutta risposta, credevo scherzasse: non è che uno mentre mangia le penne all'arrabbiata dice una parola così divisiva e perentoria in modo serio. Non esiste, non può essere! Avrebbe avuto un effetto diverso se nel piatto ci fosse stato, che ne so, un tristissimo riso in bianco, che già non mette allegria, ma un'arrabbiata no! “Allora non mi hai capito, mi disse molto seria, non voglio più stare con te, non ti rendi conto che sappiamo tutto di noi ed è per questo che siamo diventati estranei?”. Non risposi, iniziai a giocare con le penne nel piatto, girandole in continuazione, con gli occhi bassi per vergogna e pudore. Mia moglie mi fermò la mano, appoggiando la sua sopra la mia e riprese “Sai anche tu che così non possiamo andare avanti”. ”A dire il vero non lo so, mi sembra tutto strano, un incubo, proprio non capisco”. “È proprio questo il punto, rispose con una voce quasi materna che mi innervosì, non ci sono problemi, ma nemmeno più curiosità, stimoli, niente di niente. Siamo come fratello e sorella, dai, non farmi dire cose delle quali potrei pentirmi, hai capito a cosa mi riferisco”. Mi alzai dalla sedia senza proseguire, volevo evitare uno scontro verbale che avrebbe peggiorato la situazione, andai nel salone sedendomi accanto al gatto che indifferente alla tragedia, si stiracchiava la pelle, iniziando a fare le fusa. Aveva ragione, erano mesi che il sesso era scomparso dalle nostre vite, non era stata una scelta, ma la conseguenza degli psicofarmaci che prendevo e prendo. Voleva dirmi questo sostanzialmente e mi sentii un verme, un uomo a metà, colpito e affondato come in una battaglia navale. Lei non si mosse da tavola, capendo forse di avere esagerato rimase seduta, sbriciolando pezzetti di pane integrale e facendone poi palline. Il mezzo uomo invece, senza dire una parola, sparì dalla sua vista. Salii i gradini e mi coricai sul letto, mi mancava il respiro, sudavo freddo e mi sembrava di morire. Conoscevo bene i sintomi di una crisi di panico, ma grazie ai suggerimenti della terapista che avevo seguito, sapevo come controllarla senza farmi sopraffare. Dopo ricordo le tre pastiglie di sonnifero, invece della solita, unica, che assumevo e mi addormentai quasi subito completamente vestito, in un sonno senza sogni, neutro e asettico. Mia moglie credo rimase a dormire sul divano. Eravamo davvero al capolinea dopo una vita passata insieme. Per un certo periodo di tempo le nostre vite non cambiarono, io mi alzavo presto, uscivo per la passeggiata veloce, rientravo a casa, una doccia e un caffè. Lei, invece, si alzava intorno alle 7, una ventina di minuti di yoga, una colazione rapida rispondendo alle ultime mail del giorno prima, un ciao detto tanto per dire, senza convinzione e finalmente l'auto usciva dal cortile. Da quel momento in poi mi sentivo libero, non osservato nè tantomeno giudicato e mi dedicavo alle pulizie della casa. A proposito io mi chiamo Giorgio e la mia ex Daniela.

Grazie per avermi ascoltato

 

 

 

 

 

 

 

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