Il signor Zeta si era alzato in tutta fretta dopo il secondo trillo della sveglia. Dormiva già vestito e pronto per la mattina successiva, perché il primo mezzo che doveva prendere partiva alle 5:30 e lui non aveva tempo di vestirsi, o in ogni caso non ne avrebbe avuto voglia.
Lo attendeva un viaggio su un minivan che lo avrebbe prelevato dalla nebbia della campagna per depositarlo, impermeabile marrone e valigetta nera, entrambi di pelle, sul marciapiede di fronte alla
stazione dei treni. Da lì avrebbe dovuto semplicemente attraversare la strada, passando anche per uno spartitraffico, e salire sul treno per la città industriale, per un totale di due ore di viaggio.
La sua destinazione era un ufficio al primo piano del grattacielo Kristal, nell'ala A, un tavolo laccato di bianco, ricoperto di cartigli con dei disegni di macchine, il ronzio affumicato e affaticato del computer, tre pareti nude verniciate di bianco ghiaccio e una vetrata che andava dal pavimento al soffitto, liscia e antiriflesso, che salutava le vetrate degli altri grattacieli piangendo fuori la luce fluorescente dell'interno.
Pensando al progetto a cui stava lavorando, il signor Zeta attraversò la strada per dirigersi sul marciapiede di fronte alla stazione, senza guardarsi le scarpe, cosa che in fin dei conti non faceva mai, troppo impegnato a picchiettare l'indice sullo schermo del tablet. All'ultimo tocco, per avviare la sincronizzazione della casella e-mail, restò immobile. Provò a muovere i piedi in avanti, che però restarono ben saldi dove li aveva trascinati, quasi cadendo in avanti. Con un'imprecazione guardò in basso, scoprendo con rapido orrore di aver affondato i piedi nel cemento fresco. Gli operai avevano
appena finito di stenderlo, per sfruttare il calore della giornata di sole e sperare che asciugasse in
fretta, nonostante l'umidità e la nebbia.
Si guardò attorno, non sapeva cosa fare. Odiava gli imprevisti, programmava il suo tempo e le sue
attività sempre con la massima rigida precisione, perché tutto doveva andare sempre e solo come lui
desiderava.

Si sbottonò l'impermeabile, già lievemente in preda a un'agitazione esponenziale e col respiro accelerato.
«Ehi! Voi, là... Ehi!»
Gli operai, bevendo caffè da un thermos, lo guardarono, prima con indifferenza, quasi infastiditi, poi ridendo silenziosamente.
«Ehi! Non state lì a fissarmi, venite a darmi una mano!»
«Che le succede, signore?»
«Sono rimasto intrappolato nel cemento! Quello che voi avete steso, quindi ora mi aiuterete a
uscirne.»
«Ah, no, ma non possiamo, sa» rispose uno degli operai. «Dobbiamo terminare subito di stendere anche l'altra pensilina, altrimenti il capo stasera ci caccia senza pagarci.»
«Arrivederci, signore. E stia più attento la prossima volta.»
I due si allontanarono svelti per tornare a sorseggiare caffè, ignorando i gemiti del signor Zeta; abbacchiato da tanto disinteresse, riprese il tablet e chiamò i Carabinieri. Doveva terminare il
progetto entro quella sera stessa, altrimenti il suo capo non gli avrebbe concesso il premio produzione, quindi non avrebbe potuto acquistare quel girocollo per Tanja, pesante quanto caro, e - peggio ancora - spiegare tutto alla ex moglie che viveva ancora con lui e che ogni giorno, al minimo contrattempo, minacciava di mangiargli casa, deposito in banca e barca. Oltre a raccontare tutto alla stranierissima amante, Tanja, che una volta saputo del mancato introito, lo avrebbe lasciato senz'altro. Pensò alla ex moglie, infatti, mentre componeva il numero delle forze dell'ordine, sperando che non fosse in servizio quella mattina - certo non ricordava i suoi turni - e di non vederla arrivare al volante dell'auto nera.
Nel frattempo si erano fermati alcuni passanti per chiedere se avesse bisogno di aiuto.
«Tiratemi fuori di qui, per amor del cielo!»
Avevano provato a toglierli le scarpe, a tirarlo via, a scavare in quel fango ghiaioso non ancora solidificato, ma senza riuscire a smuovere l'uomo dalla sua sede. Sembrava, anzi, che più cercassero di estrarlo, più questo vi sprofondasse dentro, come in una pozzanghera di sabbie mobili.
Arrivò la Polizia municipale, niente Carabinieri né Polizia di stato per la sua vicenda. Il signor Zeta era alquanto abbattuto, oltre che completamente fuori di sé. Tutto ciò era veramente qualcosa che mai avrebbe immaginato potesse accadergli e nemmeno aveva mai sentito raccontare né in Tv né dai suoi conoscenti.

Iniziò a pensare che qualcuno lo stesse punendo, che lo avesse scelto come pupazzo per remote torture voodoo. Forse Tanja ce l'aveva con lui perché ancora non le aveva regalato la collana con gli zaffiri, che tanto si addiceva al suo collo perlaceo e ai suoi occhi glaciali?
O forse era tutto un gioco organizzato dalla ex moglie, ancora gelosa e furiosa per il tradimento?
Forse aveva esaurito la pazienza e si era decisa a lasciarlo libero? Ma per questo lo aveva già maledetto a vita e iniziato a vendicarsi lasciandolo cadere nel cemento? O magari era stato il capo che aveva scoperto il suo metodo segreto per terminare sempre in tempo i progetti, saltando i controlli qualità?

In ogni caso pregava, sudando via pentimento da ogni poro, mentre il cemento saliva su per le sue gambe, alimentandosi con l'acqua contenuta nelle cellule che componevano la sua pelle, raggelando il suo corpo e tutte le speranze di uscirne presto, se non almeno vivo.
I poliziotti intanto avevano chiamato un altro operaio che sapeva usare un martello pneumatico, per provare a spaccare il cemento. Questo accese lo strumento, tra le urla del signor Zeta che aveva paura gli avrebbe tranciato le gambe. Il martello però rimbalzò velocemente sul cemento senza
intaccarlo. Il signor Zeta urlò ancora più forte e iniziò a piangere in maniera sconcia.
«Tanja, ti regalerò il girocollo con gli zaffiri, e anche quello con i rubini e le perle e tutto quello che vuoi, ma devo uscire di qui prima! Subito!!!» strillò con orrore.
La folla che stava assistendo scoppiò a ridere. Alcuni conoscevano il signor Zeta e tutte le sue vicende: la ex moglie tradita, l'amante straniera succhiasoldi, il figlio che non gli parlava più da anni. Proprio loro ridevano più forte con un'espressione disfatta e quasi con sollievo, perché tutto ciò era accaduto a lui e non a loro, almeno fino a quel momento.

L'operaio tentò di nuovo di rompere il cemento che si era indurito e aveva ricoperto il signor Zeta ormai fino alle ascelle. Era chiaro che nemmeno il martello avrebbe potuto liberarlo.

I poliziotti, gli operai e i pendolari se n'erano andati.
Si era fatto quasi buio e la gente del quartiere accorreva sul marciapiede della stazione per portargli fiori, recitare preghiere, lasciare lumini e sgranare rosari. Il signor Zeta era esausto. Il cemento lo aveva quasi sommerso, si nutriva della sua energia e cresceva a ogni respiro.

Quando ormai restavano fuori solo gli occhi e una parte del naso comparve la ex moglie. Gli diede una rapida occhiata di disprezzo, mormorando parole confuse di acre soddisfazione, prima di sferrare un calcio alle gambe della – ormai – statua.

L'uomo non poté nemmeno piangere: l'energia feroce con cui era stato dato il calcio stimolò ancora di più la crescita del cemento che in un secondo lo ricoprì integralmente.
Il giorno successivo si celebrò il funerale e per volere della ex moglie fu deposta una lapide ai piedi della statua, sul marciapiede della stazione, che così recitava:
"Qui giace il signor Zeta A., traditore, truffatore, padre assente, uomo nato dalla polvere e morto nel cemento. Riposa qui a monito e testimonianza dell'aridità degli esseri umani."
Dopo la cerimonia Tanja e la ex moglie, sistemati i capelli, posizionate ai lati della statua, si scattarono una foto insieme con la fotocamera del tablet e la pubblicarono sui social network dal profilo dell'uomo: finalmente avrebbero potuto vivere una nuova vita insieme e regalarsi tutte le collane che volevano. 

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