La storia riporta indietro nel tempo, alla fine degli anni Sessanta. Un donna entra in lacrime nel pronto soccorso di un ospedale torinese. Ha le braccia graffiate e i polsi chiazzati di blu, conseguenza di una stretta di mani nervose. Ai medici confida: «Mio cognato ha tentato di violentarmi, ma ho lottato e sono riuscita a scappare». Le lesioni sono superficiali, la prognosi è di un paio di giorni. La ragazza - minorenne - viene accompagnata nell’ufficio di polizia, dove ripete la sua storia.

Il cronista e il fotografo ricevono la segnalazione e la sera vanno a casa della vittima. Parlano con il “bruto”, un uomo piccolo, calvo, lucido di sudore, che racconta: «Non è vero, non ho tentato di fare del male a mia cognata, sono solo fantasie». E le lesioni? «Ha avuto una crisi di nervi, si graffiava. L’ho presa per i polsi per bloccarla». È convincente.

Intanto la vittima è chiusa in cucina e non si fa vedere. Attraverso la porta urla che non vuole parlare. Il cognato dice che la ragazza è appena arrivata dalla Calabria per un periodo di vacanze e, soprattutto, di riposo. «Mi raccomando - implora l’uomo - sono a casa per malattia, ho un lavoro e sono stimato. Se finisco sul giornale, mi uccido per la vergogna».

Il giornalista torna in redazione, spiega la vicenda al capo cronista e gli espone i suoi dubbi. Ma l’altro è inflessibile: «Facciamo un titolo a tre basso…». Il fotografo porta la faccia del “bruto”. «Bene, continua il responsabile della cronaca. Abbiamo anche la “testina”. Allora merita una colonna in più». Il cronista insiste: «Roviniamo una persona, pensiamo alle conseguenze…». Non c’è verso di convincere il “boss”. Il giornalista si rifiuta di scrivere la storia, ma è costretto a passare gli appunti a un collega.

 

Il pezzo esce. Il giorno successivo, verso le dieci, un coordinatore delle Ferrovie informa la redazione che a Collegno, sulla linea per Modane, un uomo si è buttato sotto il treno. Nel pomeriggio si viene a sapere che le dichiarazioni della ragazza sono inattendibili. Era già stata denunciata al Tribunale dei minori in quanto mitomane e autolesionista. I genitori l’avevano spedita a Torino dalla sorella infermiera, nella speranza che cambiando città guarisse dalla fissazione di essere violentata. Il cognato sapeva di questa sua malattia, ma aveva taciuto perché non potesse essere presa per pazza. «Sono solo fantasie», aveva detto.

Anche la notizia del suicidio viene scritta. Una “breve senza il nome del protagonista «perché bisogna avere un po’ di rispetto anche per chi si toglie la vita»

Ma questa volta non entra in pagina.

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