Oggi sarà una giornata senza fili dal cielo. 

I sogni sono stati interrati tra le macerie di una notte indifferente ai pensieri che si assottigliano prima di coricarsi.
Alzarsi a mezzodì, nel disincanto di un’ideologia senza più foce, è oltremodo coerente e, oltre maniera, poco ortodosso. 


Devo fare qualcosa.

Così, per liquefare quella morsa tenera che è metafora leggera di ciò che noi uomini ci ostiniamo a chiamare tempo, cerco un oggetto adatto e stappo una bottiglia di vino bianco freddo da bere in un bicchiere sottile.


Ho voglia di sublimare tra i fornelli questa notte senza corde, sorda al silenzio di un sonno appiccicato male ai roncigli ostinati del ricordo, perciò, per pranzo, preparerò grosse cozze spagnole impanate e saltate in una pentola di terracotta e, quasi alla fine, prezzemolo e aglio sminuzzati e cosparsi a pioggia, con un bel po’ di pepe nero gettato a soffio sui mitili.


Perlman e Barenboim soppesano tra i muri l’integrale delle sonate mozartiane e i muri reggono l’armonia divertita.


Lei, un po’ immaginario e un po’ reale, è accucciata e dorme sorridente con gli occhi riscaldati dal sole tardivo che le illumina la mano sinistra poggiata a conca sul giaciglio e ancora intiepidita dai gesti confusi, nel mosaico armigero di sensi opachi e di torpori adiacenti, composti obliquamente in trincee intaccate da nessi geometrici e da congiungimenti architettonici, insieme e poco prima dell’alba, quasi all’aurora.

 

Nella notte, per caso o forse per necessità, ho sentito più volte il levigare insistente della sua guaina attorcigliata a ventosa e lei, a suo pronunciare, il picchiettare turgido nel guscio.


Chi può dire che sia vero ciò che appare nel caotico approssimarsi di due dissonanti quantità rimosse di materia, scomposta e ricomposta in attività mentali improvvisate da una psiche arrendevole, che sembra riprodursi in lembi umidi di muschio carnoso, mischiati a caso da un’attrazione parziale che all’origine è forse il rintocco di un’anima dispersa in una diaspora interminabile dal corpo? 


Piano, senza fretta, e in silenzio per non svegliarla dal suo esporsi nuda nel segreto dei sogni, andai in cucina a preparare il rituale del cibo e controllai le bottiglie in frigorifero. Erano sei, ben fredde e propiziatorie. Ne stappai una e riempii un bicchiere che bevvi subito. Incominciai a pulire tre chili di cozze crude, strofinandole nell’acqua più volte fino a quando l’acqua non è più torbida e le cozze hanno quel colore nero ostinato e rugoso privo di filamenti appiccicati alle valve come tracce del tempo o come segni fragili di flora non più viva, quel colore di cenere vecchia e fili di canapa bagnata che ho visto tra gli scogli profondi, mentre a mani nude staccavo dalle tane, dopo una lunga attesa, i polpi intelligenti, abili nel loro dissimularsi.


Pensavo intanto all’impasto di pane grattato, unto dall’olio buono, e pieno di pomodorini a pezzetti senza semi, e un tritato finissimo di prezzemolo, aglio, sale e pepe, da poggiare lievemente sul mitilo dischiuso da una cottura in una pentola priva di acqua col coperchio e la fiamma leggera.


Mi abbracciò da dietro, appoggiandosi alla mia schiena nuda come un felino morbido e caldo, e sentii il premere delicato dei suoi capezzoli e il muoversi delle sue mani e il poggiarsi delle sue labbra.


“Mangiamole crude, -mi disse - e beviamoci le bottiglie fredde, mastichiamo i bocconi di pane e spremiamo i limoni, senza fretta.” 

 

Le cozze furono aperte da un coltello pagano da contadino, appuntito e poco affilato, nel gesto che è quasi un rituale marino e del mare poi porta l’odore nel gusto eccitato dal limone spruzzato e dal vino freddo e dal pezzo di pane buono che asciuga il palato.

 

Fu bello vedere, sospesi nei gesti, i nostri corpi nutrirsi.

Tornammo a ricercarci l’anima e, mentre prendevo l’ultima bottiglia di vino bianco ferma sul pavimento per bere ancora un sorso non più freddo, qualcuno in me pensava che il tempo, nelle vacue corrispondenze dissolte tra uomini e cose, non è mai guadagnato.


“Sono fuori della storia - dissi a voce alta - forse per questo dilapido nell’esistenza il mio intervallo ontologico.”.


“Siamo” - rispose lei con uno sguardo di mare in inverno e con un corpo di bosco pieno in autunno. 


Poi sorrise e mi chiese da bere, prima di ricominciare a lambire quel frammento assurdo dell'anima, disperso in chiazze umide sulla nostra pelle.

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