«È adorabile, non trovi? Non è il regalo ideale?».

Avrei dovuto rispondere con un sì e con un no, quindi non dissi niente.

Sì, il cucciolo (anzi la cucciola) di San Bernardo che Piero teneva in braccio era davvero adorabile. L’animale si protese verso di me, tentando di leccarmi la faccia.

No, non era il regalo ideale. Non per Giuditta.

Lei adorava i gatti.

Era Piero ad amare i cani ed era convinto che, per simpatia, la sua dolce metà dovesse  provare lo stesso verso la scondinzolante bestiola.

Io non ne ero tanto sicuro, ma non volevo passare per il solito cinico: caustico, pessimista e impermeabile alle emozioni. Giuditta e Piero erano sposi da sei mesi ed era possibile che la magia dei primi tempi avesse la meglio su qualsiasi altro sentimento. Anche sulla predilezione di Giuditta per i felini.

La cagnolina si divincolò tra le braccia di Piero e, non riuscendo a liberarsi, manifestò il proprio disappunto con una copiosa cascata di pipì.

Riuscii a saltare indietro prima che le mie scarpe ne fossero inondate. Erano scamosciate e sarebbe stata una seccatura.

Piero rise. «Non so per quanto tempo riuscirò ancora a tenerla in braccio» disse.

Già.

I San Bernardo sono cani grossi. Mangiano tanto, occupano un sacco di spazio, costano tanto.

Cercai di immaginarmi che aspetto avrebbe avuto il trilocale di Giuditta e Piero di lì a sei mesi.

«Come pensi che la chiamerà?».

Mi veniva in mente “Cujo”, ma non era un nome adatto. Me la cavai con un: «Penso che tocchi decidere a Giuditta».

«Giusto» convenne Piero posando per terra la cagnolina. Quella cercò di arrampicarsi sui miei pantaloni, riempiendoli di bava e peli. «Magari “Briciola”» proseguì Piero «Chi le capisce le donne»

Non riuscivo a pensare a nessuno di mia conoscenza. Intanto, mi chiedevo in che misura il vorace, tenero, affettuoso animale avrebbe inciso sul bilancio della nuova famiglia. C’era da tenere presente anche il costo della tintoria.

Alla fine, cedetti all’assalto del cane e mi chinai a carezzarla.

L' amore può tutto, pensai mentre tiravo indietro la testa nel tentativo di proteggere gli occhiali da un lavaggio non richiesto.

Giuditta e Piero si separarono dopo tre mesi.

 

«Non le ha nemmeno dato un nome» disse Piero mentre la San Bernardo esplorava il mio studio.

«La chiama “Cagna”. Ha detto che anche il Tenente Colombo chiamava così il suo cane: “Cane”. Ti pare una risposta?».

Buttai lì un “no” mentre tentavo di impedire a Cagna di marcare quello che pareva ritenere il suo territorio. Ma non era un comportamento tipicamente maschile?.

L’abbrancai e riuscii a dirottare il fiotto verso la pianta di ficus, fantozziano simbolo del potere. Occhio e croce, Cagna doveva avere un anno ed era pressoché impossibile tenerla in braccio. Naturalmente, era ben lontana dall’aver smesso di crescere.

«Che cosa hai detto?» domandò Piero.

«Ho detto che non posso occuparmi del caso» risposi «Conosco te e Giuditta da prima che vi sposaste e farei un pessimo servizio a tutti e due, anzi a tutti e tre. E poi il diritto di famiglia non è il mio settore. Ti posso dare il nome di un collega; si chiama Otello Negri».

Lasciai andare Cagna che si diresse verso il proprio padrone lasciando sul parquet una scia gocciolante.

Ero certo che quel cane non fosse la causa della loro rottura, ma non riuscivo ad escludere che si fossero separati anche a causa sua.

«L’ha lasciata a me» disse Piero mentre Cagna gli posava la testa sulle ginocchia. «Mi piace pensare che l’abbia fatto perché sa quanto le voglio bene».

Raggiunsi la scrivania e cercai il biglietto da visita del collega. Ebbi il tempo di notare che le mie scarpe erano inzaccherate. Erano quelle scamosciate.

Da seduto, potevo vedere gli occhi castani di Cagna mentre guardava Piero. Lui le carezzò la testa e lei scodinzolò. Un sonoro tum tum tum contro le gambe dell’altra sedia.

«Sarà dura, molto dura, ma ce la faremo, vero tesoro?» disse Piero.

Io mi chiesi a chi si fosse riferito quando aveva detto “quanto le voglio bene”.

«L’amore può tutto» concluse lui.


 

«Gli ha pignorato il cane».

«Ah, ecco a chi si riferiva» mormorai io.

«Cosa hai detto?».

«Niente, pensavo ad alta voce». Nello stesso momento in cui alzavo la cornetta, avevo capito che la telefonata di Otello Negri annunciava guai.

Adesso, dal suo silenzio, potevo immaginare quale sarebbe stata la frase successiva.

«Senti, qui mi sa che andiamo in contenzioso e… lo so che è un tuo amico, ma devo alzare la parcella. Come minimo, mi tocca fare un 710».

Avevo indovinato ancora.

«So che Piero non naviga nell’oro e che non fa apposta a non pagare gli assegni» proseguì Otello «certo, se non spendesse così tanto per quel cane...».

Toccò a me rimanere in silenzio.

Per un po’.


 

«Il tuo amico, Otello, è un genio» disse Piero.

Cagna, legata a una panchina lì accanto, era circondata da un gruppetto di mamme e bambini.

«Non esageriamo» riposi io.

«Pensa che esiste una norma del codice civile che dice che il custode della cosa pignorata ha diritto alle spese per la conservazione della cosa e...».

La sua voce fu sovrastata dall’abbaiare festoso di Cagna, soffocato da un’inutile museruola.

«… insomma, non che Cagna sia una cosa, ma io sono il custode».

Annuii. In barba alla lettera della legge, come custode si nomina quasi sempre il debitore.

«E al creditore tocca anticipare le spese per il mantenimento della “cosa". Tocca a Giuditta pagare! Tu la conoscevi questa norma?».

«Mi pareva di aver letto qualcosa. Comunque, è nel codice di procedura civile».

Seguì un istante di silenzio, interrotto solo da qualche uggolio.

«Giuditta ha rinunciato al pignoramento» disse Piero.

Si levarono alti strilli. Uno dei bambini, dalla panchina, era riuscito a salire sulla schiena di Cagna. La madre cercava di levarlo di lì, ma senza troppa convinzione. Rideva. Ridevano tutti.

«E così tocca di nuovo a te mantenerla» dissi io.

«Non ha ancora finito di crescere» sospirò Piero «Non sono riuscito a trovarle un nome cui risponda. Certo, non “Cagna”».

Il bambino di prima era sceso e una bambina aveva preso il suo posto. La ormai non più cagnolina era zitta e immobile, a parte il solito tum tum tum della coda contro la panchina.

 

«Ma che razza di nome è?» disse l’uomo al mio fianco «Non mi dica che questo è il suo cinquecentoventiduesimo cane!».

«Cinquecentoventidue è il numero di un articolo del codice di procedura civile» risposi.

L’uomo borbottò qualcosa.

Cinquecentoventidue infilò il muso tra le mie gambe, poi sollevò lo sguardo. I suoi occhi avevano il colore delle castagne novelle colpite da una luce radente.

I miei pantaloni, come le scarpe, erano un disastro.

Le carezzai il capoccione.

In fondo, l’amore può tutto.

 

NDA; oggi gli animali di affezione, per legge, non sono pignorabili. 

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