Diceva un foglio bianco come la neve: “Sono stato creato puro, e voglio rimanere così per sempre. Preferirei essere bruciato e finire in cenere, che essere preda delle tenebre e venir toccato da ciò che è impuro.” Una boccetta di inchiostro sentì ciò che il foglio diceva, e rise nel suo cuore scuro, ma non osò mai avvicinarsi. Sentirono le matite multicolori, ma anch'esse non gli si accostarono mai. E il foglio bianco come la neve rimase puro e casto per sempre - puro e casto - ma vuoto.

K. Gibran

 

Marrakech, Agosto 1980.
Il caldo era insopportabile così come l’afrore umano e l'olezzo proveniente dalla vicina conceria. 

La borraccia era vuota ed avevo sete. Così mi avvicinai al venditore d’acqua. L’uomo, magrissimo, di età indefinibile, portava a tracolla una pelle di pecora cucita e utilizzata come otre, sulla testa un cappello. La circonferenza della larga falda era ornata da colorati pendenti in corda. Gli consegnai una moneta. L’uomo strinse l’otre sotto l’ascella e mi porse il bicchiere d’ottone pieno. Chissà quante labbra prima delle mie vi si erano appoggiate. L'arsura non mi provocò alcuno scrupolo igienico. L’acqua era incredibilmente fresca.
Mia madre strabuzzò gli occhi con disgusto. Una fotografia testimonia quanto ho appena scritto.
L’attenzione di mio padre fu, poi, attratta da una voce maschile proveniente da una bottega. L’uomo offriva cammelli in cambio di mia madre. Il mio babbo tagliò ogni trattativa con una secca risposta negativa. Non avevo mai, prima di allora, pensato che mia madre fosse bella o così bella. Per me era la mia mamma e basta. Ora, però, osservando le fotografie di allora, comprendo il motivo di cotanta attenzione maschile: capelli rossi raccolti, abito nero leggero su un fisico magro, labbra a cuore, borsa di paglia e cinepresa. Appariva una affascinante e indipendente donna europea.
Un mercante di tappeti che aveva assistito alla scena, fuoriuscì dal negozio e ci invitò con nobile cortesia ed un italiano approssimativo, ad accomodarci sui puff in pelle, attorno ad un ampio piatto d’ottone utilizzato come tavolo, nell’ingresso della sua bottega. Badr (Plenilunio), questo il suo nome, spiegò che la donna è ancora considerata un oggetto prezioso si, ma da possedere, e mai si deve iniziare una trattativa, poiché se si giungesse ad un accordo, esso deve essere necessariamente onorato. In tali circostanze mai scherzare.
Dal retro del negozio provenivano risate e bisbigli. Alcuni movimenti percepiti con la coda dell’occhio rimanevano, tuttavia, privi di immagine, sinché Badr, non batté le mani e pronunciò due nomi che mi parvero femminili. Tale intuizione ebbe conferma. Due bambine, mie coetanee, dagli identici lineamenti raffinati, si presentarono con una teiera e cinque tazzine che furono riempite di liquido color giada fumante. Il profumo di tè ed il sapore di menta conferivano freschezza nonostante la temperatura. Ne fui stupito. Comparve, altresì, una donna di una bellezza raffinata e altera il cui sorriso era di una luminosa elegante allegria. Per somiglianza la madre delle gemelle e moglie di Badr il quale la presentò. Il suo nome era Farida (perla rara). Aveva non solo le mani tatuate con astratte costruzioni floreali, ma anche una mano di Fatima, sul collo, una stella a cinque punte sul polso destro e un uccello stilizzato sul retro della caviglia. Quest’ultimo si intravvide quando si sedette a gambe incrociate.
Ricordai di avere letto che era una tradizione delle donne berbere decorare il proprio corpo con l’henné e che alcuni tatuaggi, proprio, come quelli sul corpo di Farida si riteneva proteggessero dal malocchio e dalla malvagità. Ne rimasi affascinato. Tale emozione fu percepita dalle sorelle, con le quali, mentre i nostri genitori parlavano dell'Italia, raggiunsi il retrobottega.
Il mio francese, benché, limitato a quanto appreso dagli svizzeri Olivieri e Pancaldi, giudici di “JSF” non rese, tuttavia impossibile la comunicazione.
Si chiamavano Maha (gazzella) e Maisa (che cammina con fierezza), avevano dodici anni; uno più di me.
Lo spazio, reso angusto dalla quantità di tappeti sia appesi alle pareti, sia adagiati sul pavimento era illuminato da un lucernario. Ci sedemmo sotto quella luce concentrata. I loro sguardi mi inquietarono poiché mi fissavano negli occhi e mi carezzavano i capelli e mi palpeggiavano le braccia abbronzate. Occhi e capelli chiari non erano certo frequenti, ma il loro atteggiarsi era permeato da una languida e calda attenzione che stuzzicava le mie giovani gonadi. Devo confessare, senza pudicizia, che proprio qualche mese prima le mie mani avevano iniziato pratiche che l’ipocrisia induce a ritenere dannose per la vista.
Il comportamento evidenziava il carattere delle sorelle.
Più riflessiva e razionale Maisa, più irruente e passionale Maha.
Con un cenno d’intesa, volto alla sorella, quest'ultima si scoprì una spalla. Comparve un tatuaggio, identico a quello che la madre aveva sul collo. Proseguì nella spogliazione e mi mostrò la mano di Fatima tratta sotto l’ombelico. Poi si sfilò altra stoffa e due uccelli stilizzati le decoravano i polpacci. Rimase nuda in piedi nella penombra, senza malizia e volgarità. Un fiore con al centro della corolla un occhio le decorava l’inguine. Io avevo iniziato a sudare. Il cuore pompava con velocità e la posizione seduta non mi era più molto comoda. Invitò la sorella ad alzarsi e la spogliò. Anch’ella aveva impressi sulla pelle i medesimi disegni, nella medesima posizione. Io non avevo mai visto tanta delicata e pura e semplice bellezza nella mia breve vita ed è, ancora oggi, uno dei miei ricordi più emozionanti.
Si inginocchiarono, mi spogliarono e mi stesero supino.
Alla vista della mia eccitazione sorrisero, ma non era quello il fine del loro intento. Lo capii quando con un bastoncino ed una ciotola iniziarono a disegnare.
I nostri respiri caldi, eccitati e concentrati, la mia pelle sotto la loro sono ancora il momento di sensualità più casta che abbia mai vissuto e che mi riempie e mi rinfresca ancora oggi, come un bicchiere di fumante e profumato te alla menta.
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