Il cadavere del “Risino” giaceva nudo nella sua bottega, prono appoggiato su ginocchia e gomiti, sul banco ove le ceramiche venivano decorate prima di essere di nuovo cotte. 

Corde bloccavano i movimenti. 

La posizione era sguaiata ed irriverente, oltraggiosa allo sguardo. Nell’ano era stato inserito un cilindro di bianca maiolica affusolata, i genitali erano stati cosparsi di argilla e, sotto di essi era stato posto un braciere. Il calore aveva asciugato la terra causando un dolorosissimo effetto morsa. 

Nella bocca, forse urlante, era stato inserito un piccolo manufatto di argilla grezza: un asinello. 

Dalle ustioni su labbra e lingua si deduceva che era stato realizzato sul posto e, ancora fumante, introdotto in gola. 

Le modalità mostravano assoluta crudeltà. 

L’esame necroscopico richiedeva attenzione. Estrassi il cilindro dall’ano; era lungo più di due spanne e del diametro di un matterello. 

Tra lo sporco di sangue e scarti intestinali si intravedeva una figura: un vecchio a quattro zampe cavalcato da una giovane seminuda; si intravvedevano i seni dalla scollatura di un ampia camicia che la copriva sino alla vita, le gambe erano nude. La mente mi condusse alla leggenda di Fillide e Aristotele. 

Quando uscii i giornalisti della stampa locale mi attendevano bramosi. In un paese di provincia non accade mai nulla e, un efferato omicidio è fonte di maliziosa e morbosa curiosità.

Mi allontanai con un secco e seccato “No comment!”

Giunto al commissariato, mi chiusi in ufficio per redigere una accurata relazione, non senza le mie deduzioni. 

Un delitto così eseguito non poteva essere originato da estemporaneità e violenza immediata: tutto pianificato e premeditato. Era una vendetta? Il mio intuito propendeva per un autore femminile, stante sia la violenza perpetrata sui genitali della vittima sia per l’immagine sull’oggetto introdotto nell’ano. 

Il dominio di una donna, della passione, sul rigore etico di un vecchio filosofo, sulla ragione. Non era solo questo, quanto, piuttosto, la rivalsa della modernità, della consapevolezza femminile sul retrogrado conservatorismo maschile. 

Senza alcun elemento probatorio che conferisse certezza, quantomeno indiziaria nei confronti dell’autore del delitto, l’episodio criminoso smarrì la propria carica investigativa. 

Senonché dopo un mese circa, anche il “Virgigliotto” fu trovato morto ammazzato con eguali modalità. In bocca, però, non un asinello, ma un cane. Anche in questo caso nessun indizio. 

Le mie congetture si rafforzavano. L’autrice era una donna. Nel passato dei due artisti maiolicari, nessuna ombra. Solidi rapporti famigliari, solide finanze, nessun debito con i fornitori. 

Eppure doveva esserci un elemento di comunione. A tali due assassinii ne seguirono a distanza di un mese ciascuno, altri due. 

Stesse modalità. In bocca, altri due animali: un gatto ed un gallo. Evidentemente, non riuscivo ad individuare ciò che associava le vittime. 

Mi sorse l’idea di controllare i documenti di fornitura e vendita, seppur con la consapevolezza che non avrei riscontrato alcuna utile informazione. Le fatture di vendita erano intestate a nobili famiglie, a istituti religiosi e pubbliche amministrazioni. D’altronde erano i quattro maiolicari più prestigiosi, dalle raffinate creazioni sia sacre sia profane. 

Tra la documentazione dei fornitori evidenziai che l’argilla veniva acquistata dalle vittime dallo stesso venditore: il “Renaccio”. 

La zona di prelievo era presso la riva destra del fiume ove la corrente rallenta e si insinua in un’ansa creando una sorta di laguna. Le quattro fatture riportavano la medesima data. Mi recai sul posto e fui ricevuto da una giovane donna in avanzato stato di gravidanza che, tuttavia, non le creava alcun impedimento. 

Era bella, con pelle chiara, occhi neri e labbra carnose che custodivano uno smagliante e affascinante sorriso. 

Mi presentai. La sua stretta di mano era forte e decisa, vigorosa. Rispose alle mie domande con disponibilità anche se fredda. Ciò acuì il mio istinto. 

Perdere quattro fabbriche di maiolica nel corso di quattro mesi, avrebbe, certamente, preoccupato qualsiasi fornitore, invece, Amber, questo il suo nome, era stranamente serena e tranquilla. 

Durante il colloquio mi accorsi che scriveva su un foglio bianco “cicerona”, “conceria”, “concerai”, “conciare”. Anche io adotto tale comportamento per distogliere disagio. Io, però, traccio ripetutamente le mie iniziali stilizzate. Quando le chiesi se fossero venuti in quella specifica data tutti e quattro, mi rispose che non ricordava. Solitamente, artisti come loro, tendono a selezionare e verificare la materia prima personalmente. Anche questo atteggiamento acuì il mio istinto. 

Dopo i saluti di commiato mi diressi verso casa. Era ora di cena, ma non avevo fame. Una piadina con squacquerone e alici ed un ballon di Aglianico del Vulture, “Il sigillo”, Cantine del notaio, mi furono di conforto. 

La notte fu foriera di maggiore chiarezza. Evidentemente, il Notaio aveva conferito con il suo sigillo una certezza alle ipotesi. 

Tornai da Amber. Con lo stesso vigore mi strinse la mano. 

Le esposi la mia teoria sugli omicidi molto schiettamente. 

"Sono convinto che lei sia la colpevole. Gli animali in bocca alle vittime sono i protagonisti di una favola dei fratelli Grimm: “I musicanti di Brema”. Ho notato che è appassionata di anagrammi. Nel nostro precedente incontro scriveva gli anagrammi della parola “renaccio”. Anagrammando il titolo della favola risultano “scimunita”, “idi” e “Amber”. Ritengo sia successo questo: una morte al mese “idi”, “Amber” non lo spiego, è evidente. 

Ciò che non comprendo è “scimunita”. Lei, Amber, mi pare tutt’altro. Inoltre, mi manca il movente". 

Amber mi rispose senza emozione: “Le ho mentito. Quel giorno vennero tutti e quattro alla cava. Mi assalirono e abusarono di me. Compirono ogni più turpe gesto sul mio corpo. Io mi dimenavo, e urlavo. Il gallo intimò di fare star zitta la scimunita. Mi riempirono la bocca d’argilla. Credevo che sarei morta soffocata, mentre loro si divertivano sfogando ogni violenza. Poi mi abbandonarono nuda sulla riva del fiume. Avevo lividi ed escoriazioni su tutto il corpo. Sanguinavo, non solo dal naso. Dopo qualche mese, l’assenza di ciclo mestruale e l’esito di un test di gravidanza rivelarono che ero incinta. Di chi, però? Così mi recai da ciascuno di loro. Mi deridevano appellandomi “scimunita”. 

Dopo il primo, gli altri tre mi implorarono, ma “avevo argilla nelle orecchie.” – sottolineò con un ghigno – “Sono stata io e li ucciderei altre mille volte. Ho deciso di tenere il bambino, anche se non è frutto di un atto amoroso. Non sono un’assassina di innocenti”. 

Le tesi la mano. Stretta forte, decisa e vigorosa. Non ho mai condiviso con altri gli esiti delle mie indagini. Tale conclusione rimase un segreto tra Amber e me. 

Sono trascorsi alcuni anni dall’accadimento di tali fatti. Timo mi chiama zio, mentre mi corre incontro sporco d’argilla.

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