Quel pomeriggio ero parte integrante del mio divano di pelle del soggiorno di casa.

Il caldo era  insistente e il gracchiare della radiolina di mia sorella alimentava il mio senso di spossatezza.

Non un muscolo  si muoveva e la mia  mente lievitava sognando chissà quali atolli sperduti del Pacifico con annesse danzatrici che mi facevano aria mentre altre mi portavano una Coca fresca.

Certo, l’Oceano era da me abbastanza vicino abitando in Florida, ma visto il mio stato contemplativo sono certo che non sarei andato tanto distante.

La scuola era da poco finita e per noi ragazzi occupare il tempo sembrava quasi fosse un lavoro.

Quindi io al sol pensiero mi stancavo e mi sdraiavo.

Quell'estate festeggiai i miei 13 anni e mia madre preparò la solita torta con le fragole e panna mentre mio padre mi diede una gran pacca sulla spalla dicendomi: <<Auguri ragazzo, stai divenendo un uomo. Steven sei il mio orgoglio.>>

Ricordo questa frase detta, da sempre.

In realtà erano dei genitori un po’ distratti, ma alla loro maniera mi volevano bene.

Quel pomeriggio alla tv stavano dando un vecchio film di guerra. Gli americani erano sbarcati su un isolotto Giapponese che non compariva neanche sulle mappe quasi. Le coordinate che il Capitano aveva ricevuto erano Lat.45 gradi nord e Long.10 gradi ovest. La presa di quell’isolotto ai fini del  conflitto  non aveva alcuna importanza, ma gli ordini erano ordini. Una volta sbarcati, un  gruppo esplorativo si addentrò nell’Isola detta Thai Chaj, isola assai rigogliosa e ricca di acqua,ma alquanto impenetrabile ed imperscrutabile.

Giunti circa alla sua sommità, i primi segni di vita comparvero. Scatolette di carne aperte con resti di frutta consumata fecero immediatamente capire che qualcuno aveva vissuto lungo tempo in quel luogo. Ma la cosa che attirò la mia attenzione non fu quello.

Una casa.

Si!

Una casa sull’albero fu trovata dal gruppo.

Costruita sicuramente per proteggere coloro che avevano soggiornato in quell’isola, per proteggersi da animali o da eventuali nemici.

Ma anche come punto di avvistamento, in quanto era situata in un punto assai strategico.

Fu una folgorazione.

Spensi la televisione e con il mio walkie talkie chiamai i miei più cari amici: Robby e Pablo.

Ci mantenevamo in contatto con quello per tutte le nostre comunicazioni.

<<Ragazzi, correte subito da me! Ho una grande idea>>

I due, anch’essi non esattamente delle saette, arrivarono dopo due ore a casa di Steven.

Ci riunimmo nel garage.

Spiegai cosa avevo visto per televisione e della mia intenzione di costruire una casa sull’albero.

I primi dieci minuti i due mi guardarono con fare sospetto, girandomi intorno e toccandosi il mento rimurginando sulla cosa.

Trascorse più di un’ora, ma la decisione fu presa.

<<Sì, la costruiremo!>>

<<Sì, ma dove?>>

<<Perché non la costruite sull’ albero nero del possedimento del vecchio Brown?>>, disse la mia sorellina, che nel frattempo aveva spento quella radiolina gracchiante.

L’idea piacque subito, ma fu vincolata da un baratto. Per non dire niente a mamma e papà mia sorella pretese un posto anch’essa sull’albero. Le fu accordato, nonostante il nicchiare dei mie compagni…

Bisognava adesso fare un sopralluogo.

Il posto era davvero bello. L’albero nero si ergeva maestoso in quel posto e il suo colore lo differenziava in maniera evidente dagli altri.

Era vicino al corso di un ruscello da cui probabilmente il vecchio Brown attingeva per produrre del pessimo alcool. La sua dipartita fa pensare che fosse davvero imbevibile.

Sì, quel posto faceva per noi.

La mattina dopo iniziammo la ricerca di tutto il materiale occorrente.

Chiodi, colla, legno ecc...

Con una parte dei nostri risparmi e con la generosità di qualche commerciante, nell’arco di due settimane recuperammo gran parte di quello di cui avevamo necessità.

La costruzione ebbe inizio. Era per noi come costruire la cupola di S.Pietro in Roma, ma non demordemmo.

Nonostante le difficoltà che incontrammo finimmo di costruirla di Giovedì.

Come il varo di una nave, una vecchia bottiglia di birra vuota appesa ad un filo fece il suo dovere infrangendosi alla base del vecchio albero nero.

Eravamo talmente orgogliosi che non stavamo più dentro le tute azzurre di meccanico che Marlon ci aveva prestato.

La scaletta di corda e legno ci permise di salire uno alla volta in cima.

Davanti alla porta, costruita di compensato giallo, prima di entrare apponemmo un cartello di quelli con su scritto “Libero" o "Occupato”.

Entrammo.

Il cuore ci batteva a mille tanta era l’emozione.

Aprimmo entrambe le finestre e l’emozione fu ancora più forte.

Eravamo circa a 10 metri dal suolo e la vista che avevamo era nuova per noi. Una visione della nostra cittadina completamente diversa. I tetti delle case, le strade, le macchine e le persone che si muovevano sembravano quasi un film in televisione.

La natura regnava lì intorno. Nella parte abitata e strappata alle paludi gli alberi, i fiori, i cespugli erano una esplosione di colore. Solo più lontano, la macchia diveniva più cupa e paurosa. Lì sabbie mobili, paludi e coccodrilli la facevano da padrone. Ma di quello non avemmo timore.

Passammo delle estati splendide in quel posto, governando dall’alto la città come dei regnanti feudatari nel castello.

La sera ci capitò spesso di sgattaiolare fuori dalla finestra per correre nella nostra casa e poter ammirare le stelle.

Oh sì, anche il cielo era a nostra disposizione. Ci sentivamo più fortunati degli altri, in quanto eravamo a un passo da  poterle toccare e vederne la brillantezza.

Le storie che nacquero e ci raccontammo in quel posto potrebbero dare avvio alla scrittura di innumerevoli racconti per ragazzi. Ma furono solo nostre e le serbiamo ancora nel cuore.

Ora io, mia sorella, Robby e Pablo siamo grandi ormai.

Mi capita ogni tanto di tornare nella mia cittadina, dato che mia sorella si fermò per dare in seguito alla luce 3 gemelli. Il campo del vecchio Brown è stato soppiantato da un luccicante Market Store.

E il vecchio albero nero, abbattuto per sempre.

Io vivo e lavoro in case molto più alte del nostro albero. Tutte di vetro e acciaio.

Ma la sensazione è davvero diversa ragazzi.

Penso maggiormente alla nostra perduta libertà e alla spensieratezza. La libertà  di vedere, pensare, immaginare con gli  occhi puri della giovinezza.

Bene, questa è una cosa che, pur salendo maggiormente al cielo, ho smarrito.

Ma una cosa ho fatto.

Sul tavolo del mio ufficio ho una targa che mi ricorda chi ero e come vorrei essere.

 

Lat. 45gradi nord/Long. 10 gradi ovest/

Tutti i racconti

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