Una mattina d’Agosto, è domenica, il Sole è appena uscito prorompente per far evaporare la guazza della notte, a Torre Argentina i gatti iniziano la giornata facendo colazione, le gattare riempiono i piatti, ormai puliti dalla cena precedente. Solita routine, quelli più affettuosi si gettano tra le gambe delle signore senza aspettare, quelli arrivati da poco, gli ex benestanti, quelli con padroni “che palle ‘sto gatto”, insomma quelli che devono andare in vacanza ed hanno promesso ai loro figli che al ritorno “te ne prenderemo un altro, tranquillo”, come se l’affetto fosse solo un problema gestibile, ecco, questi ultimi se ne stanno in disparte, aspettano che le donne se ne vadano, non sono abituati a dividere il cibo, poi aspettano che i vecchi abitanti si sazino e vadano a leccarsi al sole per poi addormentarsi, ormai abituati a questa routine del poco affetto. Loro non hanno mai avuto una vera casa, degli umani che li carezzavano e li coccolavano, non si può avere nostalgia di una cosa mai conosciuta.

«Sei novo, vero?»

«Sì, so’ arivato ieri sera, ho aspettato tutta la notte che tornassero a riprendeme, ma lo sapevo che era finita»

«Meno male, tu sei de quelli che raggioneno, ce so’ artri che miagolano disperatamente pe’ giorni, verso la parte ‘ndove se ne so’ annati li bipedi, poracci, ‘no strazio inutile, come la vita di quelli che l’hanno scaricati qui»

«Lo so’, nun te crede, anch’io vengo da un posto simile, un pischelletto che a malapena se reggeva in piedi m’ha preso ieri dalla mia famija, c’avevo du’ fratelli e tre sorelle, bazzicavamo er lungomare de Tor Vajanica, stavamo bene, er regazzino decise che potevo sta’ mejo co’ lui, mi mostrò ai genitori che se guardarono rassegnati e me misero in macchina co’ tutti loro, beh, alla terza frenata me vomitai pure l’anima»

«Ecco perché c’hanno ripensato»

«E che ce posso fa’, ho scoperto lì che soffrivo de mal d’auto»

«Nun hai fatto in tempo a falli affezzionà»

«Ho sporcato er regazzino che s’è messo a piagne, m’hanno scaricato qui»

L’altro socchiude la bocca in una smorfia «Ettecredo, è ‘na condanna a morte, magari ar padre j’hai sporcato pure ‘a machina »

«Ma nun l’ho fatto apposta, me stavo a sentì male»

«Vabbe, dai, qui se sta’ bene, nun potevi capità mejo, semo serviti e riveriti, famo come cazzo ce pare e ce vonno tutti bene, mejo che è successo subito, sennò t’affezzionavi e te faceva più male»

«Però ho perso li parenti, chissà se li rivedrò»

«Ma c’avrai tanti amici e tante femmine solo pettè, a noi ce castrano appena cominciamo a sviluppà»

«Davero? Poracci! Comunque che altro se fa qui? Raccontame!»

«Se guardano li turisti che ce guardano, è un gioco de sguardi, ma anche se li vedi simpatici nun ce perde tempo, tanto arivano da lontano, nun te ponno portà via, se nun voi rotture stai lontano dai bordi, tanto nun ponno entrà»

«Mo’ vedo, n’oretta al giorno je la posso dedicà»

«Come la maggior parte de noi, tanto pe’ svagasse»

Da fuori si sente una vocetta

«Papà, guarda, assomiglia a Gigio, lo prendiamo?»

«Se vuoi sì, te l’ho promesso, questi tigrati sono i migliori, tranquilli e sonnacchiosi, dai, ti faccio scavalcare, prova a farci amicizia»

La prende e la deposita oltre il vetro

«Vieni cuccioletto, micio, micio, micio»

«Che dici, me faccio acchiappà?»

«Nun c’hanno er trasportino, nun c’hanno ‘a machina, so’ der quartiere, dai che forse stavorta hai svortato!»

«Se vedemio compà!»

«Ma spero popio de nun vedette più, t’auguro tanta felicità, amico mio»

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