Considerando che di solito sono un ghiro, era piuttosto strano che, quella mattina di Giugno, mi alzassi dieci minuti prima della sveglia, puntata per le cinque meno un quarto. Ancora più strano di dovermi svegliare a quell'ora la Domenica. Non ero abituato a vedere il buio fuori dalla finestra della camera: in generale, le tende venivano tirate verso mezzogiorno circa, e a quel punto, con la luce accecante del sole che cadeva dritta sul mio cuscino, era impossibile non svegliarsi.

Mi misi a sedere sul letto, ed ero talmente emozionato e agitato anche a quell'ora da scuotere leggermente il materasso. Mia moglie, accoccolata su se stessa, i lunghi riccioli scuri che le cadevano sulle spalle, brontolò nel sonno, sbuffando visibilmente, e si strinse al lenzuolo. La guardai, notando con un sorriso il segno del cuscino sulla guancia, ma non la svegliai, come mi aveva chiesto la sera precedente dopo essersi scusata mille volte: dopo una settimana di duro lavoro in cui aveva dormito solo tre ore per notte, era giusto che si godesse un meritato riposo. D’altra parte, la capivo perfettamente: Giugno, in un ufficio di commercialisti, era il mese peggiore, e le occhiaie scure che le circondavano gli occhi ne erano il testimone più evidente.

Io, invece, non sentivo il bisogno di dormire e, d’altra parte, non ci sarei nemmeno riuscito: il mio cuore batteva troppo forte per permettermi di addormentarmi, nonostante nella stanza regnasse il buio pesto.

Mi alzai in piedi, indossai il pullover grigio che avevo preparato la sera prima e raggiunsi la stanza di mio figlio, dalla parte opposta del corridoio. Prima di entrare, aprii leggermente la porta della stanza, in modo da permettere l’ingresso di un filo di luce.

Il fascio luminoso colpì Filippo proprio sulle guance rosee.

Stava ancora dormendo, e in effetti mi dispiaceva svegliarlo in quel momento: sorrideva beato nel sonno, e abbracciava il cuscino come se fosse stato il suo peluche preferito di quando era bambino. Chissà a che cosa stava pensando. Forse sognava la sua compagna dai capelli biondi … forse la vedeva, mentre gli sorrideva e i suoi occhi brillavano …

Avevo quasi paura: forse non era ancora pronto. Era come se quella sveglia rappresentasse l’inizio di una nuova era, e non potevo affrontare il momento con leggerezza.

D’altra parte, però, una cosa era certa: se non l’avessi fatto quel giorno, non credo che mi avrebbe perdonato tanto facilmente.

Sospirai e mi preparai a quell'ultima piccola sfida.

 

***

 

Un fragrante profumo, la pelle morbidissima, e quella voce così dolce che mi parlava, mi accarezzava, mi calmava, sul banco di scuola al ritorno dalle vacanze … e io ero lì davanti a lei ma era come se non ci fossi, era tutto buio intorno a me, e io cercavo di raggiungerla, allungavo le mani in avanti, nel vuoto, e non c’era niente, niente …

«Filippo? Filippo?».

La voce di mio padre era delicata e un po’ roca mentre mi chiamava, come se in realtà non volesse svegliarmi, ma non ci stava riuscendo: ero troppo abituato ad ascoltare i rumori fiochi per non accorgermene. Probabilmente si trovava in piedi fuori dal letto, e il suo alito riusciva a raggiungere il mio collo in un flebile soffio, donandomi una piacevole sensazione di torpore.

Mi girai e, finalmente, aprii gli occhi.

Nonostante ci fosse poca luce, riuscivo a distinguere abbastanza bene il volto gentile di mio padre che mi osservava. La sua barbetta ispida era spettinata, e i capelli scompigliati dal cuscino; aveva però indossato, sopra al pigiama, un morbido pullover di cotone, il mio preferito: ero solito appoggiarci la faccia, e mi piaceva sentire contro la guancia un morbido strofinare, che sembrava una carezza.

Gli sorrisi, mi alzai dal letto e presi la felpa leggera che mio padre mi porgeva con un sorriso.

«Sei pronto?», mi domandò.

Attesi di infilarmela prima di rispondere. «Sì, andiamo».

«Il posto più bello per vederla è sul balcone, più o meno tra cinque minuti. Se ci muoviamo, possiamo osservarla dall'inizio», mi spiegò mentre uscivamo dalla stanza.

Gli sorrisi sornione. «Se ci muoviamo quanto?».

«Chi arriva per primo vince un giro al lago».

«Con la barca dello zio?».

«Con la barca dello zio», approvò lui.

Gli rivolsi un breve sguardo di sfida prima di scattare a correre verso il balcone del soggiorno, e sentii la sua risata contagiosa mentre me lo lasciavo alle spalle. Senza aspettarlo, aprii la portafinestra e uscii fuori.

Non era molto più illuminato che dentro, e nonostante continuassi a guardarmi intorno, non mi sembrava ci fosse niente da vedere. Osservavo e osservavo, strizzando gli occhi più che potevo, ma era tutto buio. Forse ero io a non essere abituato, ma mi sembrava di non averci guadagnato molto a vincere nella piccola gara con mio padre.

Lui mi raggiunse un attimo dopo e si fermò al mio fianco.

«Non c’è niente», gli dissi, deluso.

«C’è tutto», mi rispose. «Basta sapere dove».

Guardai meglio. «Non c’è ancora niente».

Sorridendo, mi indicò un punto all'orizzonte.

E in quel momento lo vidi.

Il cielo stava cambiando colore.

Non avevo mai pensato che potesse farlo, o almeno non in quel modo.

Mi ero sempre immaginato che dovesse essere una grande cappa azzurra o nera e che, a seconda delle necessità, potesse mostrarti al mondo e alle persone care quando avevi voglia di vederle o nasconderti in un grande abbraccio di tenebra quando volevi stare da solo.

In quel momento, invece, non era né azzurro né blu; non era nemmeno di un colore definito, a dire il vero. Dietro la casa, ancora si vedevano le tonalità scure, come il nero e il grigio; e subito dopo, in una sfumatura molto graduale, anche il blu, il ciano, l’azzurro e il celeste.

Non avrei mai potuto immaginare che, davanti a me, i colori potessero essere diversi.

Dopo l’azzurro, c’era il verde chiaro, il verde limone, il giallo, l’ocra, l’arancione, e addirittura il rosso, là intorno alle Prealpi. Con il lento passare dei secondi, era come se le sfumature più calde si avvicinassero, cercando di soppiantare gli altri che rubavano loro il posto; e io assistevo affascinato a quell'arcobaleno enorme steso sul cielo che si spostava lentamente sopra la mia testa, con la sensazione che lo stesse facendo solo per me, per omaggiarmi … oppure che fosse un segreto mondiale che solo ora veniva svelato a pochi eletti, e io e mio padre eravamo i primi ad assistervi e dovevamo custodirlo con cura come se fosse stato un piccolo grande tesoro …

E parallelamente, là ai confini estremi e lontani del lago, la foresta si indorava.

I suoi rami contorti e le sue fronde verdeggianti, risuonanti di dolci cinguettii di uccellini mattinieri, si coloravano lentamente di un riflesso rosso aranciato, che piano piano diventava giallo ocra e poi giallo brillante, e incominciava a brillare come una melodia frizzante. Tutto luccicava, e le scintille e i colori si riflettevano sull'acqua trasparente e calma del lago, che sembrava invitarmi a tuffarmi.

E la vita si svegliava, si animava al colorarsi del cielo.

Come se quello fosse un segnale, poco dopo, dal canneto sotto il nostro balcone uscì una famigliola di anatre, la mamma davanti che nuotava e i pulcini dietro a zampettare, in uno starnazzo generale. Riuscivo a distinguere bene ogni uccello, e mi divertivo molto a spiarli: ecco, un pulcino imbranato era caduto in acqua a testa in giù e aveva incominciato a strillare come un ossesso, non ancora consapevole che il suo corpo era adattato al nuoto e che lui sapeva nuotare perfettamente. Allora la madre si avvicinò, lo tirò su dolcemente con le ali e con il becco, e quando il piccolo riuscì a rimettere la testa fuori dall'acqua …

«Eccolo», mormorò mio padre.

Ovviamente non avevo bisogno di quell'avviso: sapevo già dove guardare.

Era il sole.

Avanzava pigramente, senza fretta, al di là delle montagne, un pezzettino alla volta.

Sembrava che ogni suo movimento fosse studiato, come se avesse passato giorni a prepararsi, e l’ingresso era trionfale.

Un enorme cerchio infuocato e caldo che spandeva i suoi raggi ovunque attraverso le nuvole basse e, al suo tocco, illuminava e scaldava ogni cosa: le canne, le ninfee, le increspature sull'acqua, il lungolago, il legno del pontile, le barche attraccate. E, come sotto l’effetto di un magico incantesimo, tutto si svegliava: le canne si scuotevano, i rami frusciavano, le barche ondeggiavano, gli aironi volavano, le anatre nuotavano.

Più il sole saliva, più si colorava il cielo, come se gli rendesse omaggio.

Era il grande sovrano della vita, ecco cos'era; e aveva organizzato una celebrazione, un’esplosione di colori solo per quel momento speciale e meraviglioso, e io e mio padre eravamo come degli imbucati che spiavano dal buco della serratura, unici che osavano avvicinarsi a quell'armonica perfezione.

Era solo colore, in fin dei conti. Solo ed esclusivamente colore.

Una cosa che non avrei mai potuto vedere, prima.

Restai affascinato a guardare quello spettacolo in silenzio, incapace di emettere suoni.

«Bello, vero?», mi domandò mio padre, quando alla fine il sole fu alto nel cielo.

Annuii, incapace di fare altro.

Era la prima volta che guardavo l’alba dopo l’intervento agli occhi.

La prima volta che i colori della vita – della mia vita, della vita umana, della vita di tutti – festeggiavano ai miei occhi.

Quando alla fine dovetti voltarmi per tornare in casa, una cosa era certa.

Era appena nata un’abitudine.

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