La fabbrica è all'interno di un complesso circondato da un alto muro, quasi una fortezza aperto su due lati da ampi portoni da dove entrano grossi camion provenienti dalle segherie, e scaricano interi alberi già ridotti in tavole che verranno messe a stagionare negli appositi spazi. A sinistra del portone d'ingresso, una costruzione dove si trova l'ufficio. L'edificio prosegue fino al deposito degli attrezzi che fa angolo con la casa vera e propria dove vi sono i due appartamenti di Primo, che vive solo e Quarto con la moglie e i due figli di dieci e undici anni. Nell'angolo la costruzione diventa fabbrica e ci sono le due stanze dove girano i tamburi, grassi cilindri che servono per lisciare i manici delle lime e degli ombrelli, prima con carta vetrata 02, e poi con cera d'api fino a farli diventare lisci e lucidi come ogni manico che si rispetti.

Di fronte al portone, a cinquanta metri di distanza, la costruzione della falegnameria. Un parallelepipedo metà muratura e metà vetrate sporche di segatura. Dentro tutto un mondo di macchinari sconosciuti, pialle, seghe circolari e a nastro, torni e trapani. Ogni macchia una funzione diversa e tonnellate d'acciaio e ghisa con nastri dai denti acuminati come rasoi. Come primo lavoro mi assegnarono un tornio per fare manici di lima. Terziglio sgrossava al tornio i tasselli quadrati e li faceva diventare cilindri, quindi passavano a me e col mio tornio prendevano la forma, passavano quindi nei cilindri con la carta vetrata e infine da Mario che, con la fiamma ossidrica li bruniva nei punti voluti. Lo stesso procedimento veniva usato per i manici degli ombrelli. Si partiva da una tavoletta di rovere tagliata debitamente e rifilata con la pialla di Renato, il figlio di Terziglio, un bel ragazzone bruno che aspirava a diventare pugile e si allenava tutte le mattine all'alba. Le sue macchine erano le più pesanti e i suoi lavori i più precisi. Facevo parte dello staff da meno di un'ora quando mi si avvicinò Gino per farmi vedere meglio come dovevo usare il tornio, e lo fece con una elegante parlata dialettale intercalata da volgarità che non avevo mai nemmeno immaginato. Purtroppo parlavano tutti così, ogni parola era un esplicito riferimento sessuale. Bestemmie e sesso erano le sole parole che uscivano da quelle bocche puzzolenti di vino fin dalla mattina presto. Le loro mogli, che abitavano lì intorno non erano meglio di loro anche se non bestemmiavano e non dicevano parolacce e avevano un disprezzo totale per me e per Wilma. Vai a capire perché. Wilma non si ritraeva quando le mettevano le mani addosso, ma a me dava fastidio e facevo di tutto per tenerli alla larga con molta fatica.

Il primo giorno di lavoro fu un incubo e alla sera avevo la schiena a pezzi. La contessa russa nel frattempo era diventata una signora dell'alta borghesia inglese. << Stasera ghe sé patate lesse e uvi bujii>>. Parlava altezzosa, papà, già quasi ubriaco del tutto la guardava senza parlare. Odiavo le uova sode e anche le patate, ma avevo fame e non vedevo l'ora di andare a letto. Non mi aveva nemmeno chiesto come era andata la giornata, non una parola sulla mia faccia stanca, ma si informò premurosa sulla paga. << Quanto ciapito al mese ? Te pagheli o te lavori par gnente ? >>

<<MI danno settemila lire al mese. E' la paga base degli apprendisti. Hanno detto che poi mi aumentano>>.

<< Ah ben! perché ghemo bisogno de schei, to pare se beve tuto all'ostaria>>.

Ecco fatto.

Il mese passò in fretta ed ebbi in mano il mio primo stipendio. Sette biglietti da mille lire cadauno.

 

 

 

 

 

 

 

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