Quando mi scoppiò dentro quell’adolescenza di rabbia, eri già troppo vecchio persino per darti contro.
Più nonno che padre, ti ascoltai poco, non avevi messo semi profondi nel mio terreno.
T'avevo combattuto fin da bambina, con indole ribelle, maturità eccessiva per l'età che mi toccava, da sempre inadeguata come buona figlia.
Darti contro era un gioco che smise di appassionarmi presto perché da sempre l’avevo fatto.
Mi era fastidiosa la retorica con cui pretendevi di raccontare le tue figlie. L'orgoglio con cui mi descrivevi agli altri credendo di conoscermi mi disturbava. E se arrossivo era più per contenere la rabbia, che per vergogna o timidezza.
Ma non sentivo la tua mancanza se c'eri né se andavi via.
Non ti odiavo nemmeno e questo era anche peggio.
Non ero riuscita ad amarti, non ti era riuscito insegnarmelo.
Fu la malattia a stravolgere ogni equilibrio costruito a fatica.
Eri imploso, ma lentamente, senza nulla trapelare finché la devastazione della tua mente era diventata evidente e irreversibile.
Eri pensieri che perdevano peso e consistenza.
Più ti allontanavi dal reale più non resistevo a spiarti.
Non capivo cosa avesse sciolto la mia indifferenza in quella specie di amore che mi stava crescendo.
Era un desiderio di padre, di padre comunque fosse. Di padre a qualunque costo. Un desiderio tardivo e fuori tempo massimo. Un accettare finalmente i tuoi limiti ed apprezzarti per quel poco che ti avevo sempre considerato.
L’essere adulta mi restituiva finalmente uno sguardo differente su quel passato a cui ora ripensavo. Ma bastavano la pena e la compassione per la malattia a spiegare questo nuovo sentimento con cui mi toccava fare i conti?
Mi restituivo figlia, cresciuta ed amorevole.
Perché era mio il bisogno di accarezzarti, unica comunicazione possibile da quando la parola decise di assentarsi per sempre dalla tua gola.
Era mia la soddisfazione quando sapevo che avevi mangiato con gusto, digerito, dormito, che eri andato di corpo senza difficoltà.
Non avevo che prendermi cura della tua fisicità, scaldarla, lavarla, rinfrescarla, nutrirla... niente altro che l’essenziale.
Un tornare bimbo e genitore a ruoli invertiti, sconvolgente e rassicurante ad un tempo.
Un debito di vita ancora aperto, interessi pesanti che andavo saldando a rate, terrorizzata per non saperne la scadenza e insieme acquietata per aver finalmente trovato un modo per ripagarti d’esserti figlia.
Non seppi mai, e ancora oggi mi interrogo, se ti accorgessi di me o mi confondessi tra le ombre di altre donne che forse passavano nella tua mente, quelle amate in giovinezza, le infermiere dell’ospedale, le tue figlie.
Le smorfie sul tuo viso non seppi mai leggerle, tentavo d’indovinarle o inventarmi che avessi un dolore improvviso, o che passasse un ricordo di un litigio a curvare le labbra, un fastidio di cuscino, un sorriso che avrei voluto mio. E se parlandoti come se capissi la tua mano dava una debole stretta alla mia, mi dicevo fosse uno spasmo involontario più che il riconoscere che avrei voluto. Ti cercavo in quello stringere appena, ti cercavo guardandoti negli occhi senza più imbarazzo.
Mi sembrava di non trovarti mai, era un altrove impenetrabile dov’eri .
Non ero lì quando ti si spezzò l'ultimo respiro ma non me ne crucciai: da tempo ti avevo dato il mio estremo saluto.
 

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