«Devo parlarti» gli disse appoggiando la borsa su una sedia e togliendosi la giacca di renna. Lui fece un cenno di assenso con la testa,  senza parlare, come se si aspettasse quel momento. E in effetti lo aspettava. Era nell’aria, lo aveva fiutato con la stessa capacità delle bestie braccate che avvertono la presenza del predatore ma non hanno la forza di scappare. “Azzannami” pensò lui “e facciamola finita”.
«Oggi sono stata dall’avvocato» disse lei «ti arriverà la lettera con la richiesta di separazione». 
Lui non chiese nemmeno “Perché?”. Sapeva che non c’era un perché razionale. Glielo aveva detto il terapeuta che la seguiva da tre anni, da quando aveva cominciato a grattarsi a sangue, dappertutto, lacerando la propria pelle e l’anima di chi le stava accanto. Lamentava la presenza di parassiti che ogni dermatologo consultato escludeva senza ombra di dubbio. «Testa di cazzo» lo etichettava lei e ne cercava un altro, fra una seduta di agopuntura e una di medicina alternativa.
«Disturbo di personalità» gli aveva spiegato il terapeuta, per prepararlo a quanto poteva succedere da un momento all’altro. «Nessuno può aiutarla, se lei non vuole, se non collabora» aveva aggiunto.
La lettera arrivò e con essa i problemi perché la situazione precipitò. Lei divenne aggressiva e cominciò a vomitargli addosso accuse su accuse, prima quelle classiche e stereotipate – anaffettività, incomunicabilità, incapacità di sostenerla nel processo di crescita personale, sedentarietà – poi quelle più rivoltanti, le ultime arrivate nel lessico giuridico: stalking, mobbing.
 L’aggressività verbale tracimò e divenne aggressione fisica sotto gli occhi smarriti dei ragazzi che vedevano il padre incassare passivamente i colpi, senza alcuna reazione. La spaccatura divenne insanabile. Ormai cenava da solo, in compagnia del televisore che spegnava ogni qualvolta il telegiornale annunciava un “nuovo caso di violenza a carico di una donna”.
«Non reagisca» gli consigliava il terapeuta al quale lui si rivolgeva per capire come comportarsi. «Le accuse non sono rivolte a lei, ma all’orco che la moglie si è costruito nella sua immaginazione, sul quale scarica tutte le colpe. Questo le consente di raggiungere un equilibrio, per quanto precario. Se glielo toglie, lei crolla e non sappiamo cosa può succedere. Pensi ai suoi ragazzi».
Già, i ragazzi, alle prese con le paturnie dell’adolescenza alle quali ora si sommava la rottura familiare. Il maschietto si era rifugiato nella realtà virtuale dei video giochi  rifiutandosi di andare a scuola, la feminuccia si era chiusa nel silenzio e nello studio. «Pensi ai suoi ragazzi» gli ripeteva il terapeuta. Lui pensava ai ragazzi, ma loro si allontanavano sempre più  e, dopo la sentenza di separazione, non vollero più incontrarlo.«Alienazione parentale», sentenziò il terapeuta. «Ma i tribunali sono restii a considerarla» aggiunse. Aveva provato per anni sulla propria pelle la “solitudine” del capo del personale chiamato a decidere delle sorti dei collaboratori, ora provava quella del marito e del padre ripudiato. Espulso come una gomma masticata e poi sputata.
Gli mancavano i figli. «Torneranno» lo tranquillizzava il terapeuta, «faccia capire loro  che lei c’è e ci sarà sempre, ma eviti di farli sentire in colpa. Loro non possono spaccarsi in due, la loro è una scelta di sopravvivenza, si sono schierati col genitore che considerano più fragile. Torneranno».
Un giorno ricevette la telefonata del ragazzo.
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