Quinto Marcello, detto Grammaticus, si avviò al posto di guardia con passo pesante, brontolando.

Alla sua età, ancora legionario semplice, ancora obbligato alla Seconda Vigilia, quella più penosa. Gli fosse toccata la Prima, tanto faceva fatica a prendere sonno: non sarebbe stato difficile, rimanere sveglio. O anche la Quarta, quando ormai, se non altro per il bisogno di urinare, era già desto. E invece no. Gli toccava la Seconda, quando il riluttante sonno dei vecchi (massì, diciamolo, a quarantacinque anni suonati, Quinto poteva definirsi “vecchio”) gli sussurrava all’orecchio: “Chiudi gli occhi e dormi, dannato bastardo”.

E, per di più, nel deserto, con un vento gelido che s’infilava sotto il mantello, la tunica e i doppi strati di lana. Le vecchie ferite gli dolevano come se un dio dispettoso passasse un ferro, ora gelido, ora rovente, sopra le cicatrici.

Si chinò, all’apparenza per stringere meglio i lacci di una caliga, in realtà per prendere fiato.

Era pure in salita, quel dannato posto di guardia. Una ridotta sul ciglio di una rupe, esposta a tutti i venti della Giudea e, a una certa età, non si affronta una salita simile, di notte, senza che una mano gelida ti afferri il cuore e stringa.

Il cane che gli trotterellava al fianco, un cirneco bruno e magro, che sembrava fatto di lacci di cuoio, gli si strofinò accanto, neanche fosse un gatto, come per trasmettergli un po’ di calore.

«Sopporta, cuore: più atroce pena subisti il giorno che l'indomabile, pazzo Ciclope mangiava i miei compagni gagliardi, e tu subisti, fin che l'astuzia ti liberò da quell'antro, che già di morire credevi» recitò a mezza voce.

I commilitoni lo chiamavano “Grammaticus” perché sapeva leggere e, fatto ancor più inusitato, leggeva. All’inizio, lo canzonavano, ma poi, invariabilmente, usavano il nomignolo con rispetto, quasi ci fosse, nel vecchio Quinto, qualcosa che meritava considerazione.

Questo, naturalmente, non gli era valso a nulla quando si era trattato di diventare non dico primipilo o centurione, ma addirittura decano.

Il cane, Argulus, “piccolo Argo”, guaì e Quinto Marcello si chinò a carezzargli la testa.

Se lo portava dietro da quando era ancora un cucciolo, e lui di stanza in Egitto. Spesso, tutti i compagni d’arme, e non pochi ufficiali, gli si affezionavano. Alcuni lo consideravano un portafortuna. Fatto non trascurabile, era un ottimo cane da guardia. Forse, rifletté Quinto Marcello, riprendendo a camminare, era Argulus a portarsi dietro lui.

In ogni caso, quella rude forma d’affetto, sia che venisse dall’animale, sia dai commilitoni, lo rincuorava.

Cosa sarebbe stato di lui, una volta giunto il momento del congedo?. In teoria avrebbe ricevuto un appezzamento di terra e conseguito il diritto di contrarre legittimo matrimonio, ma la realtà era che non si vedeva come contadino, neanche nelle vesti di possidente, quanto al matrimonio...

La scusa era la solita: “donne e legionari non legano”, ma la verità era che, molte volte, le prostitute con cui si appartava erano pagate per dire che le cose erano andate come dovevano. Non che non fosse fisicamente in grado – non era poi così vecchio – ma la verità era che mancava, mancava...

«Sopporta, cuore» ripeté mentre il vento del deserto lo aggrediva con tutta la sua furia.

Meglio non pensarci.

Meglio continuare ad essere il solito soldato brontolone, carico d’esperienza, se non di gradi, che non amava mettersi in mostra, burbero, ma amato da tutti.

Gaio Flavio, per esempio.

Il giovane soldato che avrebbe dovuto fare con lui il turno di guardia.

Anche se lui e Quinto avrebbero dovuto salire insieme, Gaio era corso avanti.

Ed eccolo lì, Gaio Flavio, dritto in piedi davanti alla ridotta – in realtà una catapecchia di pastori trasformata in posto di guardia – la sagoma allampanata che si stagliava contro lo scintillante cielo notturno. 

«L’idea sarebbe di non farsi vedere» lo redarguì Quinto «Se arriva qualcuno lo fermiamo, lo interroghiamo e, in caso di necessità diamo l’allarme. In men che non si dica arriva un manipolo. Siete tutti giovani, correte veloci».

«Chi vuoi che passi per questa sentiero di notte?».

«Nessuno con buone intenzioni. Questo sentiero si congiunge alla pista che porta in Egitto e, da laggiù, non è mai venuto niente di buono».

Gaio indicò Argulus: «E lui?».

«Lui è l’eccezione che conferma la regola».

Gaio Flavio si avvolse nel mantello e si accoccolò «Maledetta Giudea».

«È una terra strana» convenne Quinto accosciandosi a sua volta. Argulus si stese tra loro due.

«Un dio solo» proseguì Gaio «ma ci pensi? E come ci tengono!».

«È una terra strana» ripeté Quinto «sempre sull’orlo della ribellione. Non sarà finita finché non ne faremo un deserto. Forse non sarà Augusto, visto che tiene tanto alla sua pax romana, ma qualcuno lo farà. E forse non sarà finita neanche allora».

«... e questo... messia... mi piacerebbe assistere alla sua crocifissione, quando lo prenderemo».

Quinto scosse la testa «Non accadrà. Non è un uomo; è un’idea, un’illusione. Ne prendiamo uno, lo crocifiggiamo e ne salta fuori un altro che dice che è lui, il messia, non quello di prima».

«E quegli... zeloti?» rincarò la dose Gaio Flavio «che mi dici di quelli? Pazzi scatenati!».

«Quando decideremo di risolvere la questione una volta per tutte, dovremmo cominciare da loro».

Gaio Flavio mugugnò qualcosa e carezzò il dorso di Argulus, che ringhiò. Evidentemente, si era assopito.

«Lascia stare il can che dorme» disse Quinto.

Gaio si agitò, mormorò qualcosa, esitò, e a alla fine disse: «Ecco, di questo volevo parlarti».

«Di Argulus?».

«No, degli zeloti. Credo che ce ne siano alcuni, al villaggio».

«Ah. Come fai a saperlo? E perché non hai informato il comandante?».

«La gente ha paura. Sta attenta a quello che fa. Teme che possa essere accusata di collaborare con noi».

Quinto credette di intuire dove volesse andare a parare Gaio. «Perché ho l’impressione che tu non voglia parlare esattamente degli zeloti?».

«C’è... questa... ragazza... Sara. Te ne ho parlato, no? Lo sai che è rimasta vedova e vende canestri. Nessuno però glie li compra perché gira voce che sia amica di Roma».

«Già, chissà come mai gira questa voce».

«Rischia di morire di fame e...».

«... e siccome qualcuno insinua che se la faccia con noi, tu hai pensato bene di fugare ogni dubbio e farti vedere assieme a lei».

«Ha un bambino piccolo e...»

«È tuo, ragazzo?».

Gaio Flavio si grattò la testa «No, non credo, anche se... se avessi la tua età... se potessi sposarmi...».

«Oh, Numi, proteggeteci!» sbottò Quinto Marcello, poi, temendo di conoscere la risposta «ma perché me lo dici proprio adesso?».

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