Le interminabili nevicate di agosto, chi non ne vorrebbe sui propri tetti, proprio quando è più asfissiante la calura, insopportabile l’afa?
Basterebbe salire sul terrazzino, tentare coi piedi la prima fila di tegole per sentire immediato dapprima il freddo intenso, concentrato sotto la pianta spandersi su per i polpacci, salire sulle cosce e diramarsi per ogni dove in giro per il corpo. Stendersi poi sul pendio del tetto, al sole accecante, avendo tutto intorno e sotto di sé l’inebriante senso dell’immortalità, della consapevolezza che niente potrà scalfire la tua felicità, il tuo indicibile godimento.
Sei quasi nudo, la pelle avvolta dal soffice freddo della neve scesa copiosa in mattinata dal cielo sereno e che non si scioglie ai mortiferi raggi del sole agostano. Perché non si tratta di neve inverale no, quella si scioglie, inevitabilmente scipita in semplice acqua e che presto evapora. Questa è neve d’agosto in cielo sereno e non si squaglia, nemmeno gocciola. Rimane crocchiante e solida per ore ed ore. Non vedi attorno stillicidi tristi; non la vedi sporcarsi di fuliggine, come certe usuali nevi al lato della strada nel mese di febbraio. Quegli ammassi creati dalla municipale che dapprima si fanno grigi, indi poi nerastri e infine del tutto svaniti, lascianti il posto ad un nudo gradino, uno stupido marciapiede, un sordido cassone.

Al sole accecante la neve brilla come un enorme diamante rettangolare. Ve ne sono di decine, di centinaia, laddove è caduta. Non è scesa fin nei cortili, non tutti i tetti infine ne sono coperti. Se vedi bene, qualche terrazzo è asciutto, qualche spiovente del tutto libero. La neve di agosto è democratica e giusta. Si posa e permane solo presso coloro che ne hanno estremo bisogno. Persone sole o bisognose d’amore, ai quali, per puro accanimento del destino, s’è guastato per giunta il condizionatore o manca l’acqua per morosità. La neve d’agosto non regge a questo scoramento e scende, scende da chissà dove e si posa laddove se ne sente di più il bisogno.

È l’unica cosa davvero retta e alla mano che sia rimasta, dopo che se ne furono andati il sole di mezzanotte, l’aurora boreale e la Cometa di Halley. Dopo che fu sconvolto il clima, dopo che gli oceani morirono questa fu l’unica anomalia che rimase a rincuorarci i giorni. Non se ne può fare a meno quando dalle nostre parti, per quaranta giorni di seguito, il sole batte a quaranta gradi fino alle sei di sera. Le povere vecchine che prima morivano boccheggiando ora si fanno portare in braccio dalle badanti sulla soglia e affondano fino ai gomiti nel freddo dono della stranezza climatica, oppure fanno il bagno mentre (sempre le badanti) versano nella loro vasca candidi fiotti di neve abbacinante, ricordando loro i tempi allorquando, fanciulle, tiravano in aria la soffice panna di bagnoschiuma per la disperazione delle mamme, che le rincorrevano per fermarne la discesa prima che potessero toccare il pavimento asciutto del bagno.
È un sogno che si avvera. Tutti la aspettano guardando in alto con gli occhi a fessura, quando s’appressa il solleone. Dapprima sembra polline che se ne vola sparso. Poi si consolida in morbidi e bianchi fiocchi che cadono pesanti sulle tegole secche, sotto il cielo azzurro, coi raggi che feriscono. Le cornacchie la precedono, cantando a distesa, come fesse campane.
Dicono che se esse cantano per tre giorni di seguito la neve scende certa, intorno a mezzogiorno. Ed eccola infine, dapprima pulviscolo, poi tenera granella, infine batuffolo, ondula e si posa, presto accumulandosi. Allora sorridendo, il fortunato destinatario della Grazia mette un accappatoio sulla spalla e sale, caracollando indomito, sulla terrazza arida.
Uno dei miracoli di questi nuovi tempi, strani e indecifrabili, da prendere per quel che sono. Ossia mutevoli.

Roma, 26/12/2018
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