Sta piovendo fitto fitto e silenzioso, di quella pioggia che non te ne accorgi fino a quando non ti ci trovi in mezzo e t'infreddolisce fin dentro le ossa.

Ho calpestato l’asfalto di questo ponte talmente tante volte nella mia vita da conoscere perfettamente la sua lunghezza. Centotrentadue passi quando avevo sette anni, novantotto a quindici e ottantatre adesso. Li sto contando anche ora, mentre cammino su e giù senza sosta: ottantatre esatti.

Da piccoli venivamo qui spesso, io e la mia banda di scansafatiche. D’estate ci passavamo praticamente tutti i nostri pomeriggi, trovando qualsiasi scusa per sfidarci l’un l’altro. Questo ponte è stato testimone di un milione di gare. Se potesse parlare racconterebbe di ragazzini concentrati su chi sputava più lontano, lanciava le pietre a maggior distanza o scavalcava la ringhiera per camminare al di là. In quell’ultima prova ero una schiappa, non ho mai mosso quel passo in più per la troppa paura di cadere di sotto, in quest’acqua scura che adesso sembra essere l’unica soluzione.

L’aria è nera stanotte, sembra quasi che il cielo sia in lutto. Non so per cosa piange, ma ha ordinato alle nuvole di riversare tutte le sue lacrime su di me.

Io ho smesso di piangere molto tempo fa, quando mi sono accorto che non era la risposta. In molti mi hanno detto che il pianto è terapeutico, che fa bene sfogarsi, ma quando il dolore che si sente dentro porta il nome di ‘vita’, nemmeno piangere basta più. Perciò le mie lacrime non si mischieranno a quelle di Dio, l’unico sapore che sentirò sarà quello dolce della sua compassione, il mio sale lo lascio ad infiammarmi le ferite dell’anima.

Ottantatre passi, dritti dritti lungo questa scolorita striscia bianca. Non riesco a vederla bene, ma so che è lì, pronta a farsi attraversare. Come questa ringhiera di ferro che qualcuno ha pensato bene di rialzare fino a quasi due metri, per la sicurezza delle persone, ma questo potrebbe fermare il gioco di un ragazzino di dieci anni, non l’addio di un uomo di trenta.

Infilando le dita tra i quadretti di ferro la sento resistente, la spingo e lei mi respinge, ma non mi fa paura.

Vincerò io, non ci sono dubbi, passerò al di là senza che lei se ne accorga, senza che possa fare niente. Nessuno può più fare niente.

Le gocce rotolano dalla mia nuca infilandosi nel colletto della camicia, si sono fatte più pesanti, più rotonde. La pioggia mi sta inzuppando i vestiti, anche l’impermeabile ha ceduto alla sua insistenza. Sto calpestando le mie orme da almeno due ore ed ormai sono parte del temporale; nessuno sa che sono qui se non il lampo che, ogni tanto, illumina il cielo e mi vede.

Questo posto è la culla dei miei ricordi più felici e, presto, ne diverrà la tomba.

La mia esistenza non fa altro che oscillare tra la noia ed il dolore, tra la realtà di non avere uno scopo e la delusione di non riuscire a crearne uno. E’ frustrante arrivare a casa la sera e maledire che, dopo il sonno, ci sarà un’altra mattina a sputarti in faccia tutta la sua spocchia.

Il sole splende, il cielo è blu, il lavoro chiama, il lavoro chiama. Nient’altro che doveri, nessuna libertà di scelta. Un buon figlio, un buon fidanzato, un buon collega, un buon amico, un ruolo per tutto, una maschera per ogni occasione.

Sorrisi indossati per circostanza, sorrisi vuoti, inconsistenti, sorrisi bugiardi.

Abbraccio mia madre e non sento niente, concludo un contratto e non sento niente, faccio l’amore con lei e non sento niente. Il brivido dell’orgasmo, poi basta. La guardo, nuda e leggermente timida vicino a me, e non provo niente. Non desidero la sua compagnia per tutta la vita, non desidero dei figli o una famiglia, non so nemmeno perché le sto facendo del male continuando ad illuderla. Lei mi ama, glielo leggo negli occhi, mentre io non provo altro che il desiderio di buttarmi da questo ponte.

Mi sento in trappola, rinchiuso in un vortice di disperazione.

Non ho stimoli, non ho ambizioni, tutto quello che voglio è spegnere per sempre la luce. Sono semplicemente un automa, un robot che cammina, parla, mangia perché lo deve fare, perché questo è quello che richiede la società, l’apparenza. Ma se qualcuno guardasse oltre e cercasse la sostanza, troverebbe solo aria. Non si afferra niente in me, non si intravedono scintille o intuiscono soddisfazioni. Io stesso mi guardo dentro e non trovo altro che sabbia. E’ tutto arido, non ci sono germogli, non c’è acqua. E se non c’è acqua non c’è vita, e dove non c’è vita esiste solo la morte.

Io sono morto, respiro ma sono morto. Rido, scherzo, bacio, grido, ma sono morto.

Quello che gli altri vedono ed amano è solo il fantasma di un uomo che non esiste, semplicemente una fotografia di me, che se la giri e guardi dietro non trovi che una superficie bianca. Nessun rilievo, nessun timido accenno di colore, ma solo il negativo dell’immagine di un uomo, una figura che racchiude in sé esattamente il contrario di come dovrebbe essere la realtà.

Si nasce in questo mondo per diventare qualcuno, per combinare qualcosa.

Che sia prendere una laurea, aggiustare tubi, insegnare o dipingere non importa, l’essenziale è alzarsi la mattina sapendo il perché o, almeno, cercando di capirlo. Io mi sveglio solo perché il mio corpo ha riposato abbastanza, se decidesse la mia volontà mi addormenterei per sempre.

Aprire gli occhi solo per desiderare di richiuderli è una brutta sensazione, una di quelle che spaventerebbero chiunque. Ma non me, e altri come me, forse.

Io ho capito già da molto tempo di non avere un significato. Per i miei genitori ce l’ho questo significato, anche per la mia fidanzata e persino per il mio capo e la squadra di calcetto, ma non ce l’ho per me stesso.

Mi guardo allo specchio mentre annodo la cravatta e sono tentato di stringerla di più, perché non ha senso continuare ad occupare un posto in questo bel teatro se mi sento meno di una comparsa.

Credo che ogni uomo debba essere il primo attore della propria vita, il protagonista, ma io mi guardo da fuori e vedo solo un manichino posizionato a dovere. All’occorrenza interpreto un ruolo piuttosto che un altro, ma rimango sempre un vuoto involucro di plastica.

Per molti anni ho affrontato la frustrazione di questa consapevolezza e ne ho sopportato il peso, ma le mie gambe non ce la fanno più. Ho remato controcorrente per risalire il fiume della disperazione, ma alla fine ho deciso che sarebbe stata proprio quella corrente a salvarmi. Se mi guardo indietro non vedo niente di cui essere fiero e sono sicuro che, se rivolgo lo sguardo all’orizzonte, il paesaggio non cambierà.

Questo è quello che mi spaventa più, non ho la forza di affrontare una vita vuota di tutto e piena di niente. Non posso continuare a svegliarmi la mattina e mentire a tutti.

Io voglio morire, perché non ho nessuna vita da vivere.

Ottantatré passi esatti, più uno finalmente, quello che mi porterà al di là della ringhiera.

Da quassù non riesco nemmeno a vedere il fiume, il temporale copre quasi del tutto il brontolio del suo impeto. Ho parcheggiato la macchina poco lontano, tra qualche giorno, quando i miei avranno denunciato la mia scomparsa, qualcuno la troverà ed allora capiranno. Dentro ho lasciato una busta con un biglietto nel quale chiedo scusa a tutti. Non ho voluto giustificare il mio gesto perché nessuno capirebbe mai, semplicemente li ho discolpati da qualsiasi responsabilità eleggendomi ad unico carnefice.

Mi dispiace ma, anche adesso che sono aggrappato al di là della rete di ferro, non sento nessun rimorso per il dolore che sto per dare loro. L’unica emozione che provo in questo momento così decisivo, in una situazione così reale, è la soddisfazione di non aver mai imparato a nuotare. Non appena lascerò la presa volerò per dieci metri e poi mi tufferò in quella pace che tanto bramo.

Le dita si allentano e la gravità fa il resto, l’impatto non è violento ma freddo, poco dopo l’acqua comincia ad entrarmi nel polmoni ed io sorrido cominciando a respirare. Poi buio.

 

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