Scriveva, scriveva, scriveva… lavorava ininterrottamente. Una confusione tremenda quella mattina. Aveva tantissime nuove pratiche da gestire che, sommate a quelle che non era riuscita a smaltire nei giorni precedenti, facevano aumentare vertiginosamente la mole di lavoro.

Intanto, in basso a destra dello schermo, visualizzava le continue notifiche ricevute via mail richiedenti la gestione urgente di alcune rispetto ad altre. Come un’automa accantonava momentaneamente ciò a cui stava lavorando per gestire quelle segnalate. Le numerose lavorazioni da svolgere le facevano presagire che anche quel giorno avrebbe di gran lunga posticipato l'uscita dall'ufficio prevista per le 18:00.

Un caldo torrido e un’area rarefatta la opprimevano mentre un raggio di sole illuminava fastidiosamente il centro dello schermo. Non poteva posizionarlo diversamente perchè la postazione era occupata da altri computer che avrebbero a breve sostituito quello che stava utilizzando.

Radiosa quella mattina non aveva niente di raggiante eccetto il nome. Il nome poi! Non l'aveva mai digerito: un aggettivo col quale era costretta a crescere. Spesso aveva rimproverato i genitori per la scelta, continuavano a ribadirle che non c'era vocabolo migliore che potesse esprimere la gioia per la sua nascita che aveva letteralmente irradiato la loro esistenza. Da piccola pensava che sarebbe stato meglio scegliersi il nome ad un'età ragionevole. Suo malgrado dovette farsene una ragione e convivere come meglio poteva con quello affibbiatole.

Stava attraversando un periodo fortemente stressante per una serie di vicissitudini. Era sterile e in passato per appagare il forte desiderio di diventare mamma aveva più volte tentato l' inseminazione artificiale senza alcun esito positivo. Abbandonata forzatamente l'idea, era riuscita a fatica a rassegnarsi alla realtà ritrovando lentamente un suo equilibrio interiore, quando d’improvviso, come un fulmine a ciel sereno, piombò nella sua vita Andrew. Un bambino di 5 anni frutto di una domanda di adozione fatta diversi anni prima. Un misto di gioia e tristezza la soffocava. Temeva di non riuscire a dedicargli il tempo che meritava, avrebbe voluto condividere ogni suo sorriso, ogni sua lacrima. Non sarebbe stato possibile: il lavoro glielo impediva. Aveva pensato di chiedere all'azienda un part time ma non era il momento giusto. Per far si che il figlio non sentisse la mancanza dei genitori, il marito aveva deciso di lavorare di notte. Appena lei faceva rientro a casa lui usciva per andare a lavoro. Era stanca, terribilmente stanca ed emotivamente debole, anche perchè a 50 anni rimetteva tutto in discussione.

Intanto il caldo diventava sempre più asfissiante, la gola le ardeva, aveva assolutamente bisogno di bere, una capatina al distributore automatico era d’obbligo. La frescura della bottiglina che si posizionò dapprima sui polsi e poi dietro la nuca, le diede un attimo di sollievo. L’inseparabile cellulare che aveva nella mano destra vibrava continuamente per ogni mail ricevuta. Tre gli indirizzi impostati.

Un furtivo sguardo al display: che strano! sempre la stessa mail al suo indirizzo privato "cincinprosit@........ il mittente le era noto: una casa editrice che la invitava a partecipare a un concorso letterario. Ritornata alla sua postazione non riusciva a concentrarsi. Pensava continuamente al corpo della mail:

 

“Gentile autore,

ti invitiamo a partecipare al V concorso letterario dedicato ai racconti

inediti a tematiche horror, fantascienza, fantasy, thriller, gialli”.

 

Sarebbe stato carino prendervi parte ma non aveva nulla di già scritto che soddisfacesse la richiesta. Non le restava che elaborarne uno completamente nuovo, ma pensava di non farcela visto che la

consegna del manoscritto era prevista per il 30 novembre. Forse non era il caso, già ne aveva due in cantiere che continuava a scrivere contemporaneamente a seconda dell'ispirazione del momento. Alcune tematiche poi, non le aveva mai trattate, non disdegnava però l'idea di provarci, magari avrebbe potuto crearne uno che fosse un mix tra giallo, thriller, horror, fantascienza e fantasy.

Come al solito aveva già preso il volo la sua fantasia, ma il trillo del telefono la fece riatterrare nella realtà lavorativa. Una collega le chiedeva delle informazioni in merito ad una pratica che stava gestendo. Terminata la chiamata si reimmerse letteralmente nel suo lavoro.

D'un tratto tutto intorno sembrava essersi fermato, vedeva i presenti parlare ma non li sentiva, avvolta da un silenzio totale. Non capiva cosa le stesse succedendo, provò ad alzarsi con tutte le sue forze ma sembrava incollata alla sedia, chiamava le colleghe ma non sentiva neanche la sua voce, si sentiva come imprigionata in una campana di vetro. Solo la sua mente proferiva parole: i suoi pensieri. Continuava a guardarsi intorno fin quando il monitor centrale, il più grande di tutti, non attirò il suo sguardo ipnotizzandola. Un continuo susseguirsi di immagini, di schermate, il passaggio era intervallato da molteplici effetti di transizioni: assolvenza, cerchio, cuore, rettangolo, stella, disintegrazione, rimbalzi, dissolvenza semplice, incrociata, scacchiera, fino ad arrivare all’effetto vortex, il più spettacolare di tutti, dapprima rosso, poi giallo, verde, blu, violetto, più lo fissava e più si velocizzava, più incalzava e più si sentiva attratta, un moto continuo incessante che finì col risucchiarla voracemente, famelicamente.

Istintivamente riuscì ad afferrare la sua borsa trascinandosela dietro. La potenza del vortice riuscì a farle oltrepassare le due superfici vetrose con tanti contatti elettrici in cui era rimasta inizialmente intrappolata, oltrepassò i cristalli liquidi e poi giù nei cavi: metallo, rame, restando indenne all’elettricità, quasi ne fosse magicamente immune. In quel periodo era forte il desiderio di evadere, di andar via, lontano, ma non di certo in quel modo: risucchiata da un monitor. L’ultima cosa che era riuscita a sentire quella mattina era la suoneria del cellulare della vicina di postazione

 

“Portami via con te

rubiamo insieme un'isola”

 

Avrebbe ogni volta voluto che non rispondesse subito alla chiamata per ascoltare la frase più bella di quella canzone: “io mi inventerei ali per volare”. Che poesia!

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