Non pensavo fosse così gelido anche in piena estate. Né che fosse tanto limaccioso, torbido e incredibilmente popolato di pesci. Tutti a curiosare intorno a me, vispi e screziati. Dettagli del tutto irrilevanti, data la situazione, e che però, chissà per quale strano motivo, polarizzano la mia attenzione stornandola dalle estreme circostanze in cui sono immersa.

Il grande fiume di New York, quell'Hudson che amavo per la sua insita malinconia che mi proiettava verso atmosfere oniriche, mi ha accolto ingurgitandomi indifferente, senza opporre resistenza. Tra le sue capricciose correnti fluttuo ormai da giorni, esanime, ancorata al fondo da una corda piombata. Proprio di fronte alla Riverside Church.

Tutto ebbe inizio in un uggioso pomeriggio di novembre. Quando Lee J., all'imbrunire e d'improvviso, esternò di essersi stancato di me e delle mie paturnie e, sbattendo la porta, sparì per sempre dalla mia vita. Lasciandomi in preda dei sensi di colpa e in uno stato di profonda prostrazione. Per lui, che consideravo l'uomo della mia vita, avevo dato e fatto di tutto. Ma evidentemente non era bastato. E così dopo dieci anni profusi in un amore a senso unico mi ritrovavo sola e disperata. Passai intere giornate a letto a piangere e rivangare, a lambiccarmi su cosa e dove e quando avessi sbagliato. Poi, quando scoprii che più e più volte mi aveva tradito, capii che non meritava altre lacrime e sacrifici. E pian piano mi rimisi in piedi, anche grazie al supporto di un'agopunture cinese. Un omino silenzioso, saggio e sorridente che aveva debellato i dolori che avevano attanagliato i miei muscoli. Sulla mente, invece, messa in totale disordine dallo strizzacervelli, dovetti agire con la sola forza di volontà dopo aver abbandonato devastanti sedute e mortifere benzodiazepine.

Una sera mentre aspettavo il mio turno dal sinico, in un angusto sgabuzzino adibito a sala d'attesa, conobbi Ethan. Un uomo sulla trentina, non bello ma dotato di un certo fascino. Fisico e spirituale. Senza tirarla per le lunghe, vulnerabile com'ero, mi ci ritrovai a letto in men che non si dica. E commisi l'errore di dargli fiducia. Di sprecare ancora una volta tempo prezioso nella persona sbagliata. Si vede che era destino (o io una inguaribile sciocca).

Dopo nemmeno un mese, circuita mirabilmente, e dopo un breve ma intenso addestramento sotto il suo diretto controllo, mi ritrovai convinta (e fiera) agente del servizio segreto. Ero diventata una spia, pronta (secondo loro) ad entrare in azione.

Mi spedirono, perciò, nel posto che mi aveva dato i natali, in Indocina. Dove avrei dovuto trovare, avvicinare e uccidere nientemeno che il generale Giap. Sulla fortezza volante che lasciava il cielo di New York per affrontare l'ignoto, il mio stato d'animo oscillava in continuazione tra l'eccitazione dell'avventura e la consapevolezza che non sarei mai stata in grado di portare a termine la missione, che sarei stata di certo scoperta e massacrata.

Preso tutto il coraggio che avevo a due mani e, sfoderata un'astuzia francamente a me ignota, riuscii a entrare in contatto (non senza mille peripezie) con alcuni collaboratori del generale, nella fattispecie col colonnello Nguyen, la cui seduzione fu l'unico mezzo che trovai adeguato per conquistare la sua fiducia e arrivare, così, al comandante.

Non avevo calcolato, però, che il colonnello potesse perdere la testa per me, al punto da rinchiudermi in una sorta di prigione dorata, sorvegliata a vista, schiava della sua morbosa gelosia. Stetti al gioco per qualche tempo poi, dopo aver a lungo riflettuto, decisi che era ora di abbandonare il campo, i campi. Perciò prima scappai dalla prigionia, poi dall'Indocina e dal servizio segreto. Tuttavia la mia latitanza durò poco, nonostante le artefatte sembianze. Presto mi trovai braccata da entrambe le fazioni, desiderose di riappropriarsi, in qualsiasi modo, di quello che ritenevano un loro bene.

Dopo lungo girovagare tornai nottetempo a New York. Stremata dal peregrinare per ogni dove e dal guardarmi sempre le spalle. Avevo però bisogno di una nuova identità, fatta bene e in fretta. Così, nella ferma convinzione che i cinesi fossero in grado di fare tutto, mi rivolsi all'agopuntore. Mai decisione si rivelò più sbagliata, fatale.

Ma non potevo certo sapere che l'omino dolce e sorridente che mi aveva amorevolmente curata fosse, in realtà, un tonchinese a capo della quinta colonna dei khmer.

Né (soprattutto) che fosse il fratello del disonorato Nguyen.

 

 

 

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