Mattinata limpida.
La strada vuota e la sveglia che ancora non suona. Il piumone bianco non si è sposato di un millimetro, durante la notte. Il cellulare non ha ancora fatto nessun bip, nessuno mi ha cercato, nessuno ha fatto il minimo rumore, né al piano di sopra né al piano di sotto.
E’ una di quelle mattine in cui mi basterà indossare la giacca di velluto, fresca di lavanderia, perché è una diquelle mattine delicate di Ottobre, quando il sole è caldo e il vento fresco, quando ancora le donne non indossanole calze.
La macchina del caffè con il timer partirà fa pochi secondi, senza intoppi, e la mia tazza fumante sarà pronta.
E’ tutto perfetto e io voglio morire.
Anche il regolatore da barba va liscio, senza problemi. Sono persino riuscito a trovare il metodo per non cospargere il lavabo di peli: rivesto tutto di carta igienica. Si perde un po’ di tempo e di carta, quello sì ... ma il risultato è ottimale.
Il caffè è intiepidito nella misura giusta: sì, voglio proprio morire.
Perché aspettare di essere colti di sorpresa se posso decidere come, quando e dove.
Io ho stabilito esattamente tutto quello che dovrà accadere nei prossimi trent’anni.
So che non mi sposerò mai. So che finirò di pagare il mutuo tra 22 anni. Continuerò a fare sesso due volte al mese e lo farò nello stesso modo, tutte le volte, ad eccezione di quelle sere in cui avrò voglia di bere molto. Di solito, capita con una media di una volta ogni tre mesi. Di solito, capita con il Gin.
So che non avrò figli, non avrò nipoti, non sarò nonno, non sarò mai lo scrittore che volevo essere perché non riuscirò mai a finire un classico della letteratura russa. Ho stabilito tutto per stare meglio e non avere sorprese.
Un bel giorno, ho provato a fare una lista delle cose che mi facevano stare male ma non ne ho
trovata neanche una.
Allora ho fatto la lista delle cose che pensavo la notte e che non mi facevano dormire: se non mi facevano dormire, dovevano essere loro il problema.
 Infatti ne ho trovate cento: la mia donna, il mio cane che non avevo mai voglia di portare fuori, il
mio tentativo di scrivere un libro, il mio tentativo di dimagrire, mia madre, lo sport. L’alimentazione sana. Gli aperitivi, gli aperi-cena, i biglietti di auguri, le mail di auguri, le promozioni sui cellulari, i cellulari, lo streaming che si inceppa e le scope elettriche che aspirano male.
Basta. Ho fatto pulizia di tutto.
Adesso nessuno mi chiama, ho una domestica che pulisce, mi riscalda cibi pronti e fa la spesa per me, non parla non chiede e non riceve nulla, ad eccezione del mensile.
Ho una cassetta della posta per le bollette, un cellulare aziendale che spengo non appena fuori l’ufficio, l’appartamento, le comodità, tutte le cose che si programmano con un timer e le prostitute. Tutto quello che si può toccare, i beni materiali: via i sogni e via i cassetti.
Adesso, la notte, dormo di filato.
 In metro non leggo e non penso perché non ho bisogno di occupare la mente con una distrazione. Finalmente non ho nulla a cui pensare: non è nichilismo, è relax.
Quindi voglio morire perché già so che non mi aspetta nulla di nuovo. Sarà tutto uguale e prevedibile finché morte non mi separi dal matrimonio solido che ho celebrato con me stesso.
Quindi, ora, mi sono chiesto: che senso ha aspettare?
Aspettare altri anni, tutti uguali? L’unica novità che posso aspettarmi è nell’aldilà. Che sia il buio totale o il giardino verde dei miei sogni, sarebbe comunque qualcosa di nuovo.
Sarà una morte veloce, pulita come il cielo di questa mattinata limpida.
L’impatto con il treno sarà talmente rapido e netto che non sentirò nulla, gli altri non sentiranno nulla, mi disintegrerò in pezzi talmente piccoli che non ritroveranno nulla di me e non ci sarà neanche nulla da pulire.
Qualcuno, alla prossima fermata, si lamenterà e dirà “Ma non si poteva ammazzà domani questo?”, “Ma tutti qua si devono ammazzà?”. Cose così.
Ma non è importante, perché a quel punto io sarò già altrove. O forse tornerò a rivivere la stessa vita di ora. Non so come funziona dopo morti, è l’unica cosa che non ho potuto calcolare perché io non ho fede, non ho speranze e non ho ottimismo. Quindi, per saperlo, posso solo aspettare di morire. E adesso non mi va più di aspettare.
Sono pronto nei soliti ventisei minuti, profumo il giusto e non sento nulla.
Avrei solo preferito che fosse una domenica. Ma domenica pioverà e non ho voglia di morire con l’ombrello. Io odio l’ombrello e quindi non sarebbe una giornata perfetta per morire.
Questa invece sì. Di solito ci metto 12 minuti per arrivare in metro. Fare il biglietto, invece, richiede un tempo che ho rinunciato a calcolare. Potrebbe capitare di trovare la macchinetta rotta, la fila interminabile o qualcuno che fa il biglietto per la prima volta e ci mette un’eternità. Potrebbe capitare di non avere monete e doversi fermare in un bar a cambiare i soldi. Insomma, un’incognita tale che ho scelto di fare l’abbonamento per passare tranquillamente, senza intoppi.
Certo la metro qui può riservare comunque delle sorprese: scioperi, guasti, scippi, suicidi, per l’appunto. Ma mi sono rassegnato. Ho imparato ad accettarlo, non è che sono un compulsivo, un maniaco del controllo o robe del genere.
Controllo solo il controllabile, so benissimo che ci sono dei limiti agli imprevisti. Ma sono riuscito comunque a calcolarli quasi tutti e quindi nulla riesce più a sorprendermi. So cosa aspettarmi dalla metro, da Roma, dalle donne, dagli uomini, da me stesso. Qualcuno lo trova inquietante ma io no, io credo che sia utile.
Forse, a pensarci bene, non mi aspettavo di riuscire a prevedere anche il momento della mia morte e invece ce l’ho fatta, bene così. Ho vinto io. Ho vinto sul caso, sulla vita. Decido io.
Sono in metro. Il cambio di temperatura è notevole, il solito effetto sauna anche se non è Agosto. La calca di gente, a quest’ora, è immancabile. Nella mia fantasia immagino tutti con lo stesso volto grigio e vuoto, con gli auricolari.
Tempo di attesa per il prossimo treno: 2 minuti.
Comincio a chiudere gli occhi mentre mi avvio in fondo, per beccare il treno proprio all’uscita della
galleria. Arrivato. Mi posiziono e chiudo gli occhi: non voglio che l’ultima immagine della mia vita sia il faccione grigio delle popolazione metropolitana.
Già ho previsto anche questo: la mia ultima immagine sarà la pasta fresca che mia madre faceva la domenica, mentre mio padre leggeva il giornale.
Tutto perfetto, finché qualcuno non mi urta. Maledizione.
Odio i contatti involuti, l’invadenza, le interruzioni forzate ai miei pensieri e alle mie immagini programmate.Ma succede. E’ un’altra di quelle cose che non si prevedono, qui in metro.
Apro gli occhi. Una donna mi sta chiedendo “scusa” ma in un modo insolito. E’ un “scusa” detto con la mano poggiata sul mio braccio, stretta. Un“scusa” che sembra voler dire altro. Anzi, sembra una
supplica...
Ha un cappotto lungo e aperto che le scivola da una spalla, è senza borsa e spettinata. Profuma di
cucinato. In un attimo la donna lascia il mio braccio, tira su con il naso e fa un verso a metà tra un urlo e un singhiozzo.
Una roba che non credo dimenticherò facilmente.
E si è buttata. Mi ha distratto e mi ha battuto sul tempo.
Si stava scusando per cosa? Per avermi spinto? Per avermi fatto perdere l’occasione? O forse perché uccidersi ti fa sentire in colpa nei confronti della vita, di chiunque essa sia? O si aspettava che la fermassi?
Un tonfo sordo, una frenata stridula e una specie di fruscio che non saprei definire meglio.
Come previsto, la morte in metro risulta abbastanza pulita. Un po’ di concitazione ma niente di più. La donna è scomparsa. Di lei nessuna traccia. C’era un attimo prima, non c’è ora: un attimo, il tempo di due minuti.
Eppure sento ancora il suo profumo. E questo non me l’aspettavo.

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