Quella sera non dormì. Vagò per casa come un'anima in pena. Quando la notte calò, la luna salì alta nel cielo. C’era una luce lattiginosa, irregolare, e un silenzio strano. Ogni tanto, in lontananza, si sentiva l’abbaiare secco di un cane. Oppure qualcosa che gli somigliava.

Aspettò che le luci delle case si spegnessero. Prese una torcia e uscì.

Si mosse con circospezione, attraversò la strada come un ladro. Una folata di vento sollevò polvere e foglie secche. Dentro al cantiere, tutto era deserto. Le ombre si allungavano sulle travi e sulle carriole. 

Si avvicinò a un angolo dove, giorni prima, avevo notato della terra smossa. Cominciò a scavare con le mani nude, il cuore a martellare nel petto. Qualcosa di rigido emerse. Era un portafoglio. Sporco di fango, gonfio.

Lo aprì sotto il fascio debole della torcia. Una carta d’identità. Carlo Rinaldi. La foto lo ritraeva più giovane, ma era lui: il Baffo. La data di nascita era del 1910. Dentro c’erano anche vecchie tessere sindacali, tutte datate tra il 1939 e il 1942.

Fuggì a casa con quel reperto in tasca. Aveva la prova. Il Baffo era reale. O lo era stato.

 

Il giorno dopo, lo affrontò. Aspettò che uscisse dal cantiere.

«Guarda questo» disse, porgendogli il portafoglio.

Lui lo prese, lo aprì, lo osservò. Poi lo guardò e disse, con tono quieto: «Sono io il Baffo».

Rimase a bocca aperta.

«No. Non può essere. Non siete la stessa persona. Io vi ho visti insieme!»

Lui sorrise appena. «Le persone cambiano, a volte. O si dividono». E se ne andò.

Quella mattina si svegliò presto, agitato. Aprì le imposte con un gesto secco. Davanti a lui, oltre la strada, non c’era più nessun cantiere. Solo un terreno brullo. Sterrato. Nessun macchinario, nessuna traccia di operai.

Si vestì in fretta, corse fuori. Nulla. Come se nulla fosse mai stato costruito. E le sue note, gli appunti? Vaghi e contraddittori. Forse aveva immaginato tutto? Stava impazzendo?

In cerca di conferme, andò al bar all’angolo.

«Quel cantiere... lì di fronte. Hai mai visto qualcuno lavorare?»

Il barista lo guardò con un’espressione quasi pietosa. 

«Marco, lì non si muove nulla da anni».

La vicina con il cane fu più delicata: «Non voglio contraddirti, ma... io passo lì ogni mattina. Non ho mai visto nessuno».

La sua mente cominciò ad annebbiarsi, i ricordi, una volta nitidi, cominciarono a sfilacciarsi.

Quel pomeriggio andò al parco, cercando silenzio. Si sedette su una panchina. Poco dopo, un vecchio si accomodò accanto a lui.

«Laggiù» disse d’improvviso, indicando il terreno oltre la strada, «una volta doveva sorgere una casa. Era il ’43. Ma gli americani bombardarono tutto».

Si girò lentamente. «Morì qualcuno?» chiese.

«Due muratori. Non li tirarono mai fuori. Il terreno è rimasto così».

Poi tacque, come se nulla fosse stato detto.

 

Il giorno seguente andò in biblioteca. Chiese i fascicoli storici del quartiere. Dopo ore di ricerche, trovò una foto del 1943. Un piccolo cantiere. Due operai davanti a un muro in costruzione. Uno alto e magro. L’altro basso, baffuto. Il Magro. Il Baffo.

Era la prova. Ma la data era impossibile. Se quella foto aveva più di ottant’anni… chi aveva visto?

Uscì dalla biblioteca che piovigginava. L’aria era densa, come se il cielo stesso si fosse caricato del suo disorientamento. Ogni passo verso casa era più incerto del precedente. La foto stretta nella tasca della giacca gli bruciava addosso, come se contenesse un veleno lento.

Si fermò davanti al terreno. Il silenzio era assoluto. Non un uccello, non un’auto. Solo quel vuoto che si stendeva oltre la strada. Il vento sollevava ciuffi d’erba secca, tracciando volute fragili come i suoi pensieri.

Guardò a lungo. Sperando che qualcosa emergesse. Un’ombra. Un rumore. Un dettaglio fuori posto. Niente.

Si sedette sul marciapiede. Chiuse gli occhi. Cercò di ricostruire, ma ogni scena si deformava. I volti si scioglievano, le voci si confondevano, come sogni raccontati troppe volte. La mente era un labirinto, e lui aveva perso il filo.

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