Nel '61 avevo sei anni. Non potete immaginare quanto via Padova, a Milano, fosse diversa da quello che adesso è.

 

Io la percorrevo avanti e indietro perché i miei nonni abitavano lì.

E mio zio Ferdinando ci lavorava pure, per un salumiere di nome Remigio. Remigio Fiascherini, di Lucca.

 

Proprio sull'uscio della salumeria era esposto un mastello enorme, bianco, di plastica, strapieno di olive affogate in un liquido giallognolo e salato.

 

Il signor Remigio era sempre indaffarato a disossare prosciutti o lavorare la maionese per la russa che poi deponeva nei vassoi ovali decorati a mano. La salsa era impreziosita con i colori della carota e dei piselli che, sminuzzati ad arte, sembravano galleggiare nella maionese come astronauti nello spazio.

 

Ma zio Ferdinando non era fatto della stessa pasta. Preferiva trascorrere le ore di lavoro intrattenendo i clienti con le storie più assurde, raccontate come le avrebbe raccontate Totò o Walter Chiari. E questo il suo principale non lo sopportava. 

 

Due filetti di acciuga trattati dal signor Remigio diventavano ricami raffinati per decorare i peperoni arrostiti, esposti in vetrina.

Tre fettine d'arancia si trasformavano in particolari eleganti per guarnire un arrosto di tacchino posato su un vassoio di ceramica bianco come il latte.

 

E figuratevi l'espressione di quel pover'uomo quando la signora Paparella, vedova Micozzi, gli chiedeva espressamente dello zio Ferdinando perché ‘solo da lui’ doveva essere servita. Così lo show poteva cominciare.

 

"Buongiorno signora Domenica. Cosa le do di buono stamattina?"

 

Lo zio, da psicologo truffaldino, indirizzava la vedova verso la merce ancora invenduta, ma fresca, prendendola per la gola.

 

"Guardi che salamella fantastica... la sente?"

 

Tendeva l'orecchio verso una salamella e proseguiva con una voce d'oltretomba.

 

"Mangiami, delizierò la tua boccuccia con un sapore che solo gli angeli conoscono... quanta gliene do?"

 

E quella, che lo guardava rapita come un bimbo davanti al lecca lecca:

 

"Mezzo chilo, grazie. E anche un po' di mostarda."

 

La mostarda zio Fe' l'aveva messa vicino alla salamella appena la vedova Micozzi era entrata: sapeva quanto era ghiotta delle ciliegine speziate. 

E così la Paparella che era entrata per una bottiglia d'aceto usciva con tutt'altro, dimenticandosi persino di ciò che doveva acquistare.

 

"L'aceto!"

 

Era Remigio che, quella mattina, aveva messo a parte mezzo litro di Ponti rosso prenotato dalla vedova il giorno precedente. 

 

Lei, senza nemmeno guardarlo, aveva allungato un braccio per estrarre dallo scaffale la bottiglia da 500 c.c. mentre mio zio, con il sorriso di un anatra in calore, la salutava calorosamente.

 

"Buona insalata signora Domenica. Segno sul libretto. Arrivederci."

 

Ora successe che, ingolositi dalla bontà di tutte le leccornie, i clienti della salumeria crebbero in modo inaspettato e Remigio pregò lo zio Fe' di essere più veloce con il suo "pubblico da strapazzo" e di muovere le chiappette per lavare i vassoi vuoti, scaricare le casse dell'olio e dei sottaceti, tenere pulito il bancone e i coltelli per non tagliare l'arrosto con una lama usata per il gorgonzola.

 

Ma lo zio Fe' continuava imperterrito a fare l'animale da palcoscenico. Con i clienti in prima fila divertiti dalle battute e gli altri che sbuffavano per quanto dovevano aspettare.

 

"Lo sa signora cosa sono questi?"

 

Quella volta aveva alzato due coltelli uguali davanti al naso della signora Floriana.

 

"Du cultei." (Due coltelli)

 

"Oh no signora, sono due pesci.'

 

"Te se dre a di' Ferdinando. A in du cultei. Minga du pes". (Cosa stai dicendo Ferdinando. Sono due coltelli. Non due pesci)

 

"No signora Floriana. Sono due pesci perché... sono i...dentici."

 

Floriana non capì e lo zio dovette spiegarle che se i coltelli erano uguali, identici... i dentici... allora erano due pesci.

Ma Floriana, seria come al giorno del suo funerale, continuava a sostenere che quelli, a due pesci, non assomigliavano neanche a buttarli nell'acqua del mare.

 

Fu in quell'occasione che Remigio, nauseato dallo spettacolo di cabaret improvvisato e in ansia per quanta gente riempiva il locale, sbottò.

 

"Fuori di qui. Sei licenziato.'

 

Aprì il cassetto, estrasse trentacinquemila lire e le porse allo zio Fe'.

 

"Questa è la paga della settimana. Ciao."

 

Armeggiava con una mannaia giapponese che aveva tra le mani e per questa ragione zio Fe', che si cacava addosso dalla paura, infilò la porta un'attimo dopo.

 

"Il grembiule!"

 

Zio si sfilò quella specie di camice che mia nonna aveva stirato qualche ora prima e guardando dall'alto in basso l'ormai ex principale se ne andò offeso.

 

La sera, verso l'orario di chiusura, tornò quatto quatto insieme a quel disgraziato di Ercole Carotti, che di rotelle ne aveva giusto una e pure messa male.

 

Fu proprio il Carotti a sbottonare per primo la patta dei pantaloni di velluto marrone, a coste grosse.

Mio zio Fe' lo imitò un'attimo dopo e come per magia due zampilli di un giallo paglierino finirono nel mastello delle olive.

 

"Remigio... ti aggiungo un po' di salamoia alle olive, di quella buona. Vedrai che in un'ora hai già venduto tutto il mastello."

 

L'ex principale di zio Fe' prese di nuovo la mannaia, questa volta per evirare i due disgraziati. Ma i lestofanti erano già lontani anni luce a ridere come due scimmie ubriache.

 

La notte però la passarono in guardiola. E i miei nonni dovettero risarcire Remigio con mille scuse per non passare guai ulteriori.

 

Fu in quell'occasione che mio nonno buttò fuori di casa quel figlio snaturato.

 

Poi col tempo i rapporti si normalizzarono. Lo zio diede quattro nipoti ai nonni e non ci provò più a giocare con la sorte.

Peccato. Chissà quante ancora ne avrebbe combinate e raccontate davanti al camino di casa e trasformato noiose serate d'inverno in momenti di pura allegria.

 

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