Non poteva che chiamarsi Edgar perché aveva il pelo nero, il passo furtivo e grandi occhi dorati.
Gli mancava la macchia bianca sul petto, ma, d’altro canto, io non avevo nessuna intenzione di murare in cantina mia moglie (se non altro perché non sono sposato), quindi andava bene così.
Avevamo deciso di abitare insieme il giorno in cui (era una bella mattina di primavera) era venuto a miagolare sotto la porta.
Io, all’inizio, non volevo saperne. Il fatto è che sono allergico ai gatti o, per meglio dire, alla loro forfora. Mettetemi un gatto un braccio: lo accarezzerò, gli farò il solletico sotto il mento e comincerò a starnutire come se mi fossi sniffato un contenitore di pepe.
Non sorprendetevi quindi se, mentre me ne andavo in cucina a prendere un piattino e il cartone del latte, giuravo a me stesso che il nostro sarebbe stato un rapporto fugace e senza impegno reciproco.
Non consideratemi un debole se, in capo a tre giorni, Edgar era diventato un frequentatore abituale del mio salotto: avete mai provato a contrattare con un gatto?
Devo dire, a mia attenuante, che Edgar godeva di una rara, anche se non sconosciuta, e, per me, preziosa, anomalia genetica: non aveva forfora.
Devo anche dire che Edgar non si comportò mai da scroccone: pagava periodicamente la sua quota di affitto portandomi cadaveri di topi di campagna, piccoli uccelli, lucertole e grossi insetti.
Definiti i reciproci spazi, la nostra convivenza proseguiva nel più placido dei modi.
Il mio unico rimpianto, mentre il tempo passava, era di non essere riuscito a raggiungere un simile menage con un essere umano.
All’inizio credevo che fosse una questione di caso o di fortuna, poi, mentre osservavo Edgar (o forse perché osservavo Edgar) mi convinsi che la solitudine è un’amante gelosa e, quando ti sei legato a lei, non c’è separazione che tenga.
Pensavo che, alla fin fine, mi sarei adattato alla vita come si era costruita giorno per giorno, senza che quasi me ne accorgessi, e sono convinto che sarebbe andata davvero così se non fosse stato per il SUV del vicino e per il fatto che Edgar, a differenza di me, era ancora capace di prendersi una sbandata.
Immagino che tutti abbiate visto dei gatti salire sui cofani delle auto, ma non so se li avete osservati.
Edgar ci si stendeva sopra, in una posa quasi lasciva, come un leone durante la stagione degli amori.
Il vicino, ovviamente, non era contento. Avrebbe potuto mettere il SUV nel garage, ma, quando lo aveva comprato, non aveva riflettuto sul fatto che l’autorimessa era troppo piccola per quella mostruosità su quattro ruote (secondo me, il vero problema era che il suo cervello era troppo piccolo, ma lasciamo stare).
Ad ascoltare improperi e minacce, ovviamente, toccava a me. Edgar, dal canto suo, non faceva mostra di curarsene, anche se, a pensarci bene, la sua indifferenza non era probabilmente che una raffinata e gattesca forma di provocazione.
Se non fosse stato così, non si sarebbe intrufolato dentro il motore del SUV.
Razionalmente, si poteva spiegare col fatto che il motore era ancora caldo (per Edgar non faceva mai troppo caldo), ma, segretamente, sono convinto che meditasse qualche felina, romantica fuga con l’oggetto del suo desiderio.
Ad ogni modo, come Romeo e Giulietta, i due amanti subirono un tragico destino.
Il SUV, dopo uno squassante ruggito d’agonia, spirò nonostante le cure prestategli in un’attrezzatissima carrozzeria del centro, quanto ad Edgar… non pensavo che avrei sentito la nostalgia delle penne di passero sparse per casa o che i passi di un gatto potessero fare tanto rumore da riempire il silenzio del salotto.
Finì come doveva finire, una mattina d’inverno, con la luna che, sola, tramontava da una parte del cielo e il sole che non si decideva a spuntare.
Sentii un miagolio alla porta e, prima ancora di aprirla, sapevo già che cosa avrei trovato: un gatto nero, del tutto identico a Edgar, tranne che per una macchia bianca sul petto.
Non pensai neppure un attimo a una coincidenza e neppure pensai a una specie di fantasma: i gatti sono tipi troppo concreti per diventare fantasmi.
Pensai invece alla diceria secondo la quale i gatti hanno sette vite e conclusi che, anche se nella mia cantina c’erano solo bottiglie, salami e cianfrusaglie, anche io avevo la mia strana eppur comunissima storia da raccontare.