15 Settembre 1995. Il giorno, il mese e l’anno in cui è nata Elisa, la mia sorellina. A poche settimane dalla sua nascita, in puro spirito meridionale, i parenti e gli amici gradualmente venivano a trovarci a casa nostra. C'era chi portava in dono dei giocattoli, chi dei vestiti o degli accessori per la bebè e chi delle buste bianche contenenti una o più banconote. 
Erano giorni di festa, nei vari cabaret di paste e di pasticcini posizionati sul tavolo del soggiorno, non potevano mancare un centinaio di confetti rosa. Di tutto quel ben di Dio ne ero ghiotto, così come Cettina, "la mia sorella più media," per dirla alla Nino Frassica, un undicenne e una novenne complici, una sorta di Bonnie & Clyde con quell'intrufolarci di nascosto nel salone per arraffare, visto che i nostri genitori ci proibivano di toccare i dolciumi destinati agli ospiti.
A farci visita per ultimi furono due anziani prozii, Turi e Ada, da sempre bollati i più tirchi del mondo. Quel pomeriggio notammo che zia Ada teneva in mano un sacchetto di plastica di colore giallo che raffigurava Topolino, tant'è vero che sia io che i miei familiari ipotizzammo un bel regalo per Elisa, ad esempio un completino. Invece si trattava di un maxi pacco di biscotti, precisamente la versione economica dei GranTurchese, di quelli che nei supermercati a quei tempi costavano al massimo quattromila lire. Alla vista di quei frollini, restammo negativamente sorpresi, cercando comunque di non far trasparire la delusione. 
«Per i ragazzi!» esclamò zio Turi, indicando me e Cettina. 
«Magari, se li fai sciogliere nel latte caldo del biberon, vanno bene anche per la picciridda» aggiunse candidamente la moglie, rivolgendosi a mia madre. 
Dopo che Crick e Crock se ne andarono, dal momento che era presente pure mia nonna materna, quest'ultima si mise a sciorinare una serie di commenti indirizzati ai due taccagni, sostenendo che avevano fatto una figura di merda.
A ogni modo, essendo stata ora di merenda, decisi di dissigillare quel grosso involucro trasparente e di sgranocchiare tre o quattro frollini, ma, ahimè, nella premura, lo aprii malamente, lacerandolo quasi per metà. Cettina non ne volle mangiare, affermando che quei biscotti le ricordavano gli ospedali e gli ospizi.
Mi sedetti sul divano del salone, constatando di come quei “gratati” di sottomarca erano troppo duri al punto che li ritenevo adatti come cric per sollevare un auto per il cambio di un pneumatico. Nel frattempo, nella stessa stanza, Elisa, dormiva come un angioletto nel passeggino vicino al quale se ne stava seduta mia nonna ad osservarla dolcemente.
Nell'avviarmi in cucina con l’intento di prendere una molletta per chiudere nel migliore dei modi quel paccone di frollinacci e riporli nella credenza, mi sentii chiamare a bassa voce dalla nonna. Stranamente mi chiese di darle qualche biscotto, considerando che poco prima li aveva maledetti. Non me l’avesse mai chiesto, dacché commisi l’imprudenza di passarle la danneggiata confezione di frollini da sopra il corpicino di Elisa.
All'improvviso… swoash! La confezione si ruppe e l’innocente fagottino venne interamente travolto da un ammasso di biscotti i quali sembravano le macerie di un'abitazione terremotata. La nonna, come un provetto vigile del fuoco, tempestivamente prese la lattante in braccio “evacuandola” dalla carrozzina e scrollandole velocemente quei cosini forellati, per di più ficcandole un dico in bocca per assicurarsi l’assenza di frammenti. Povera Elisuccina, diventò tutta rossa in viso per poi piangere disperata. 
Mamma, papà e Cettina accorsero subito immaginando che fosse successo qualcosa di serio. Naturalmente fui rimproverato, venendo paragonato a Gian Burrasca, tra l’altro all'insegna della sceneggiata napoletana da parte della “salvatrice.”
La piccina, una volta tranquillizzata, fu adagiata nella culla poiché si doveva ripulire scrupolosamente il passeggino. 
«Ah, i biscuttazzi di Adazza!» borbottò la nonna in dialetto siciliano, mentre gettava quei cacchio di frollini nella pattumiera.
 

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